LA CASA SUL FILO

suggerimenti per un percorso di educazione antiviolenta

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“L’orrore principale di ogni sistema che definisce il bene in termini di profitto invece che in termini di bisogno umano, o che definisce il bisogno umano escludendone le componenti psichiche ed emotive – l’orrore principale di un tale sistema è che spoglia il nostro lavoro della sua valenza erotica, del suo potere erotico, della sua desiderabilità e pienezza esistenziale. Un tale sistema riduce il lavoro a una caricatura di necessità, a un dovere con cui guadagniamo il pane per noi stessi e per i nostri cari, o con cui ci ottundiamo”.
Audre Lorde, Usi dell’erotico: l’erotico come potere (1978)

 

“Le estranee dunque si impegneranno non solo a guadagnarsi da vivere, ma a farlo con tanta competenza che un loro rifiuto sarebbe motivo di preoccupazione per il padrone. Si impegneranno a conoscere i meccanismi della loro professione, e a denunciare ogni prevaricazione o abuso attuati al suo interno. E raggiunta la cifra che consente loro di vivere, si impegneranno a non cercare di guadagnare di più, ma a ritirarsi dalla competizione e a praticare la loro professione a fini sperimentali, nell’interesse della ricerca e per pura passione”.
Virginia Woolf, Le tre ghinee (1938)

 

“Gli uomini non desiderano mettere a repentaglio la propria carriera o essere percepiti come lavoratori part-time, e quindi marginali. […] c’è una feroce competizione di stampo maschilista per lavorare oltre l’orario fissato, e coloro che si rifiutano di fare gli straordinari vengono considerati poco produttivi”.
Martha Nussbaum, Giustizia sociale e dignità umana (2002)

 

“Mentre l’ideologia della femminilità – un sottoprodotto dell’industrializzazione – diventava popolare e si diffondeva grazie alle nuove riviste per signore e ai romanzi sentimentali, le donne bianche cominciarono a essere percepite come abitanti di una sfera completamente separata dal regime del lavoro produttivo. La spaccatura tra la casa e l’economia pubblica, introdotta dal capitalismo industriale, confermò l’inferiorità della donna in maniera anche più drastica che in passato. Nel discorso pubblico ‘donna’ divenne sinonimo di ‘madre’ e ‘casalinga’, e entrambe queste etichette portavano con sé uno stigma di fatale inferiorità. Ma tra le donne schiave Nere questo lessico non trovava posto. Le forme economiche della schiavitù contraddicevano i ruoli sessuali gerarchici incorporati nella nuova ideologia. Le relazioni maschio-femmina all’interno della comunità degli schiavi non potevano pertanto conformarsi al modello ideologico dominante”.
Angela Davis, Donne, razza e classe (1981)

 

“La disuguaglianza delle donne nel lavoro è radicata nella struttura della produzione capitalistica e nella divisione del lavoro nell'industria e nella famiglia. L'uguaglianza delle donne e degli uomini, persino ‘l'uguale sfruttamento’ delle donne nel capitalismo, imporrebbero modificazioni così fondamentali del lavoro e della famiglia che è molto difficile immaginare la loro realizzazione fino a quando esisterà il capitalismo”.
Sheila Rowbotham, Persona donna (1993)


“L’aspetto rilevante che emerge dal lavoro domestico negli alloggi degli schiavi è quello dell’uguaglianza di genere. Il lavoro realizzato dagli schiavi per se stessi e non per arricchire il proprio padrone era messo in atto in forme egualitarie. All’interno dei confini della propria famiglia e della vita comunitaria i Neri sono riusciti a compiere una vera e propria impresa. Hanno trasformato un’uguaglianza negativa – che promanava da un’uguale oppressione patita in quanto schiavi – in qualità positiva: l’egualitarismo che caratterizzava le loro relazioni sociali”.
Angela Davis, Donne, razza e classe (1981)


“Le disuguaglianze di genere nella partecipazione al mondo del lavoro si manifestano essenzialmente in quattro ambiti: a) ingresso nella forza lavoro; b) permanenza nella forza lavoro; c) segregazione occupazionale di tipo orizzontale; d) segregazione occupazionale di tipo verticale. Rispetto a ciascuna di queste sfere l’evidenza empirica […] ha mostrato che in generale: a) le donne partecipano alla forza lavoro in misura minore rispetto agli uomini; b) quando partecipano alla forza lavoro, le donne tendono a rimanervi meno a lungo degli uomini; c) le donne che lavorano si concentrano in occupazioni diverse da quelle degli uomini; d) a parità di occupazione svolta, in diversi casi le donne sono sottoposte a condizioni di lavoro (salario, autonomia, autorità, possibilità di carriera, fringe benefits, e così via) meno favorevoli di quelle di cui godono i colleghi maschi”.
Ivano Bison, Maurizio Pisati, Antonio Schizzerotto, Disugualianze di genere e storie lavorative (1996)

 

“Quando gli strumenti di conciliazione sono scarsi, le donne, (specie se con figli) ‘scelgono’ impieghi più compatibili con le esigenze familiari (vicini a casa, con orari flessibili, che non richiedono straordinari e trasferte)”.
Daniela Del Boca, Letizia Mencarini, Silvia Pasqua, Valorizzare le donne conviene (2012)

 

“Da questo sistema emerge nonostante tutto una domanda essenziale mai esplicitamente formulata: Bisogna meritare di vivere per averne diritto? Soltanto una infima minoranza vanta questo diritto d’ufficio, ed è una minoranza da sempre provvista di poteri eccezionali, di proprietà e di privilegi considerati quasi naturali. Quanto al resto dell’umanità, le occorre, per ‘meritare’ di vivere, di dimostrarsi 'utile' alla società, o quanto meno a quella parte che la governa e domina: l’economia che ogni giorno di più si confonde con gli affari, vale a dire l’economia di mercato. In cui 'utile' equivale sempre a ‘reddittizio’, vale a dire vantaggioso per il profitto. In altre parole che si può ‘impiegare’ (‘sfruttare’ sarebbe di cattivo gusto!)”.
Viviane Forrester, L’orrore economico (1996)

 

“Il mondo del lavoro mi permette di vedere con chiarezza le assurdità e i paradossi di un sistema che ti sfrutta e poi ti emargina, addossando ipocritamente ai singoli le responsabilità e i costi della Crisi, come se fossimo tutti imprenditori autonomi in bancarotta fraudolenta. […] Sono figlia di una generazione di donne che ha visto nel lavoro un fattore decisivo di identificazione ed emancipazione, ma da tempo non credo più a questa ‘emancipazione malata’. L’investimento identitario nel lavoro, che pure esiste, quando diventa l’unico metro di giudizio e si nutre dell’ideologia, oggi improponibile, della self madre (wo)man, rischia di diventare un’arma a doppio taglio, perché tiene imprigionate a un meccanismo che ti spreme e ti spreca allo stesso tempo”.
Chiara Martucci, Abecedario di una ex-giovane precaria (2012)

 

“L’indipendenza economica delle donne tramite l’accesso al mercato del lavoro è stato un caposaldo del movimento femminista fin dalle origini. L’articolo XIII della Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina del 1791 chiamava le donne a partecipare in misura eguale agli uomini alle fatiche e ai lavori ingrati, inclusa la ‘distribuzione dei posti, degli impieghi, delle cariche, delle dignità e dell’industria’. Fino alla prima metà del ventesimo secolo l’accesso al lavoro salariato era parte di un più ampio corpo di rivendicazioni di uguaglianza tra i generi in tutte le sfere della vita sociale, politica, economica e riproduttiva. Ma la specifica questione dell’eguaglianza economica divise più di ogni altra le femministe. […] Le femministe liberali si batterono per l’inclusione delle donne nell’economia produttiva […] le femministe socialiste furono influenzate dalle lotte delle contadine e delle operaie che erano già state da tempo incorporate nel mercato del lavoro. Benché sostenessero la piena partecipazione delle donne alla forza lavoro, le femministe socialiste non lo consideravano come dimensione fondamentale per l’emancipazione e la liberazione delle donne. Al contrario il lavoro salariato – pur concepito in alcune circostanze come precondizione dell’emancipazione – era considerato come una condizione di sfruttamento che livellava la condizione di uomini e donne della classe lavoratrice e li poneva insieme contro lo stesso nemico, ovvero il capitale”.
Sara Rita Farris, Femonazionalismo. Il razzismo nel nome delle donne (2019)

 

“Negli ultimi decenni la presenza delle donne nel mercato del lavoro è cresciuta a ritmi diversi, ma in maniera lineare e continua. Per comprenderne le ragioni bisogna prima di tutto recuperare la nozione di conflitto, di fatto rimossa dalla tesi dell’oppressione perpetua e invariata. E addirittura ignorata dalla versione trionfalistica per cui si sarebbe creata nelle dinamiche della mondializzazione una struttura economica a cui sono indispensabili le tradizionali virtù femminili, cioè la capacità di relazione, di attenzione e di cura”.
Lidia Cirillo, L’emancipazione malata. Sguardi femministi sul lavoro che cambia (2010)

 

“Nasce allora spontanea una domanda provocatoria: i corpi femminili che vediamo muoversi nel luogo da cui sono stati a lungo banditi sono corpi liberati o corpi prostituiti? Sono donne che si sono riappropriate della propria vita, sciogliendola da un ‘destino naturale’ e disponendone liberamente o sono schiave volontarie, donne che decidono di impugnare attivamente e nel proprio interesse quella che è stata storicamente la condizione del loro asservimento: il corpo oggetto messo al servizio dell’uomo? La richiesta di ‘doti femminili’ come ‘valore aggiunto’, viene oggi dagli ambiti più diversi e più imprevedibili della società maschile – dall’industria dello spettacolo e dalla pubblicità, ma anche dall’economia, da una politica sempre più mediatica. Non meraviglia che siano le donne stesse a decidere di ‘usarle’, ‘metterle al lavoro’, ricavarne un beneficio”.
Lea Melandri, Lo spazio pubblico si femminilizza ma scompare il conflitto tra i sessi (2010)

 

“La cosa peggiore che ci troviamo a fronteggiare oggi è la scoperta di parole d’ordine del femminismo fatta dalle organizzazioni internazionali, tipo la Banca Mondiale. Se si vanno a leggere i documenti della Banca Mondiale, essi paiono veramente femministi dalla A alla Z. Le istituzioni economiche hanno capito che non c’è risorsa nei progetti che sia redditizia come le donne. Così leggiamo che è inutile dare soldi, per esempio, nei progetti di salute perché è meglio educare le donne anziché gli operatori sanitari, poiché si è calcolato che le risorse date alle madri in campo sanitario producono cinque volte i normali investimenti. Aver reso visibile il lavoro di cura delle donne ha portato le istituzioni a capirne la redditività, sfruttandola a proprio vantaggio. Furto costante delle scoperte, delle parole d’ordine e delle pratiche delle donne che è molto difficile da contrastare, anche perché la sinistra si è perfettamente allineata”.
Paola Melchiori, I rapporti tra uomini e donne in una prospettiva transculturale (2010)

 

Il lavoro riproduttivo delle donne

“Questo concetto del lavoro di cura è un concetto nuovo, direttamente desunto dalle sociologhe femministe negli anni Settanta quando si è resa visibile la doppia trama dell’esistenza delle donne, nel mondo della produzione e nel mondo della riproduzione. La ‘doppia presenza’”.
Marina Piazza, Dal lavoro di cura al lavoro professionale. Sinergie, contaminazioni, perversioni (2000)

 

“Nelle società dell’emancipazione, che per l’essenziale sono società patriarcali, la perdita della libertà femminile all’interno della famiglia è stata rilevata. Ma la risposta sociale, come sappiamo, non è stata andare a cercare la causa, bensì proporre alle donne la via d’uscita del lavorare fuori casa. Per cui abbiamo il regime della cosiddetta doppia presenza: per la sua indipendenza la donna va sul mercato del lavoro come gli uomini, per la realizzazione di sé come donna si sposa e fa figli”.
Luisa Muraro, La Demetra della Bovisa (2000)

 

“Credo[…] che il lavoro di cura sia un concentrato molto denso, in questa fase storica, di contraddizioni, di scontri e persino di potenziamenti perversi tra modernizzazione e tradizione. Inoltre, che non sia solo un problema individuale delle famiglie – o dei soggetti a esso tradizionalmente delegati, le donne – ma sia un problema al centro non solo delle politiche sociali, ma persino della vita stessa delle organizzazioni”.
Marina Piazza, Dal lavoro di cura al lavoro professionale. Sinergie, contaminazioni, perversioni (2000)

 

“Alcuni studiosi, come Hochschild e Machung usano il termine il ‘secondo turno’ riferendosi al tempo in più che le donne occupate dedicano ai lavori familiari. Altri hanno coniato l’espressione ‘la giornata doppia’ o ‘la moglie di fatica’ a proposito di questo tempo extra. Nonostante vi sia qualche disaccordo nell’effettiva differenza tra le ore totali lavorate rispettivamente da mogli e mariti, se si tiene conto sia del lavoro retribuito sia di quello familiare […], i pareri sono concordi sulla divisione squilibrata del lavoro svolto nella casa”.
Brenda Major, Il genere, i diritti e la distribuzione del lavoro familiare (1996)

 

“Come […] possiamo disaggregare questo lavoro, le sue molte mansioni e funzioni, le azioni di cui è intessuto? In primo luogo possiamo definirlo come un lavoro multiplo, connotato dalla complessità. […] In secondo luogo è un lavoro che ritaglia le sue continue ridefinizioni sui cambiamenti demografici. […] In terzo luogo è un lavoro asimmetrico, a sfavore delle donne”.
Marina Piazza, Dal lavoro di cura al lavoro professionale. Sinergie, contaminazioni, perversioni (2000)

 

“Uno degli aspetti più efficienti del governo patriarcale sta nel dominio economico che esercita sulle proprie suddite femmine. Nel patriarcato tradizionale, alle donne, in quanto non persone prive di uno stato giuridico, non era consentita alcuna effettiva esistenza economica. Nelle società patriarcali moderne riformate, le donne godono di certi diritti economici, eppure “il lavoro della donna”, nel quale sono impegnati circa i due terzi della popolazione femminile nei paesi più progrediti, è un lavoro non remunerato. In un'economia del denaro, nella quale l'autonomia e il prestigio dipendono dalla valuta, questo è un fatto di grande importanza”.
Kate Millett, La politica del sesso (1969)


“La gratuità del lavoro domestico familiare, la sua esclusione a priori dal sistema economico moderno costituiscono in realtà uno sfruttamento originale e praticamente occulto. Tanto più che, nella nostra cultura, la sfera privata e la sfera pubblica moderna (economica e politica) restano estranee l’una all’altra”.
Sylviane Agacinski La politica dei sessi (1998)

 

“Questa capacità di trovare spazio, dimensioni e articolazioni tra le ‘cose’ in modo che si dispongano armonicamente intorno a noi e ci ‘parlino’, è stata l’essenza stessa del lavoro delle donne nei secoli, ma nel senso comune, nel bagaglio di conoscenze che ciascun individuo porta con sé, la ‘vita quotidiana’ ha sempre significato un incidere basso, un ammassare cose per poi distruggerle, un fare per poi disfare. Da questo ottundimento gli uomini si sono ‘salvati’ con la modalità dell’estraneazione, della sottrazione. Per le donne il confino in questo universo chiuso è stato da un lato il segno della loro inferiorità sociale e dall’altro l’orgoglioso segreto di percorsi della ‘ragione astuta’, non condivisibili, non socializzabili, al massimo intuiti in particolari momenti nell’ambito di un universo rigidamente femminile”.
Marina Piazza, Dal lavoro di cura al lavoro professionale. Sinergie, contaminazioni, perversioni (2000)

 

“Perché molte più donne che uomini continuano a sbrigare le faccende domestiche senza essere per questo pagate? Perché si sono abituate? Perché hanno conservato, nel bel mezzo del tardo capitalismo, un barlume di ragione, o perché ha senso e dà gioia soddisfare i bisogni umani, non solo per “egoismo”, ma anche per necessità, “benevolenza”, libertà, amore, o per qualcosa che, comunque la si voglia chiamare, va oltre il ristretto orizzonte dell’homo oeconomicous”?
Ina Praetorius, L’economia è cura (2015)

 

“Il peso del funzionamento della casa è tutto sociale. Le donne non fanno i figli da sole, li crescono da sole. Proprio perché noi facciamo tutto questo gratis, il capitalismo risparmia tutti i miliardi che altrimenti dovrebbero spendere in servizi sociali. Noi sosteniamo i nidi, le scuole materne, le mense, le lavanderie dei quartieri, suppliamo a tutte le carenze dei servizi, anche di quelli sanitari. Se si ammala un nostro familiare chi lo assiste siamo ancora noi donne, sia che stiamo a casa, sia che venga ricoverato in ospedale. Anche negli ospedali noi copriamo con il nostro lavoro gratuito di assistenza, giorno e notte, la mancanza di personale sanitario. Ancora una volta il nostro lavoro, imposto come ricatto affettivo, non viene riconosciuto come tale”.
Movimento di lotta femminista, Basta tacere (1973)

 

“La funzione svolta dal lavoro femminile è in fondo la stessa che svolge l’immigrazione, ma si articola in modo diverso, adattandosi diversamente alle esigenze di una gerarchia sociale e di una cultura. L’una e l’altra sono servite a ridurre i salari, cancellare le regole, precarizzare i rapporti di lavoro ma hanno agito con maggiore efficacia in differenti settori e si sono piegate a differenti esigenze. L’obiettivo della precarizzazione, ha potuto fare leva su caratteristiche tradizionali dell’occupazione femminile, fortemente condizionata da quello che il femminismo ha chiamato ‘lavoro di riproduzione’ oppure ‘domestico e di cura’”.
Lidia Cirillo, L’emancipazione malata. Sguardi femministi sul lavoro che cambia (2010)

 

“Si sta sempre più diffondendo l’uso di aiuti familiari ‘di mercato’, offerti dalle donne immigrate. Se oggi la condivisione del lavoro di cura è tra madri e nonni, domani potrebbe essere sempre più tra donne italiane e donne straniere”.
Daniela Del Boca, Letizia Mencarini, Silvia Pasqua, Valorizzare le donne conviene (2012)

 

“Come ripensare il nesso lavoro produttivo e riproduttivo, oggi che la gestione dei servizi sociali alla terza età è totalmente in mano alle badanti immigrate?”.
Paola Melchiori, I rapporti tra uomini e donne in una prospettiva transculturale (2010)

 

“Ogni società reale è una società in cui si dispensano cure e si ricevono cure; per questo essa deve scoprire le modalità con cui dare risposta a quelle condizioni umane di bisognosità e di dipendenza in forme che siano compatibili con il rispetto di sé da parte di chi ne è beneficiario e con l’assenza di sfruttamento per chi le dispensa. Per il femminismo questo è un problema cruciale poiché, in ogni parte del mondo, è alle donne che spetta larga parte di questo lavoro, di solito senza remunerazione e spesso senza che venga riconosciuto che si tratta di un lavoro vero e proprio. Per questa ragione esse sono gravemente ostacolate in altre funzioni della vita”.
Martha Nussbaum, Giustizia sociale e dignità umana (2002)

 

“Se il nostro scopo è quello di superare la divisione del lavoro per cui le donne fanno le madri, è necessario comprendere innanzitutto i meccanismi mediante i quali avviene il suo riprodursi. […] Qualunque strategia che abbia come scopo la liberazione dalle costrizioni di un’organizzazione sociale dei generi discriminatoria, deve tener conto della necessità di una radicale riorganizzazione della cura della prole, dove l’accudimento primario sia condiviso alla pari dagli uomini e dalle donne”.
Nancy Chodorow, La funzione materna (1978)

 

“L’indipendenza economica protegge […] le donne anche dalla rottura delle unioni coniugali e le tutela in caso di divorzio o separazione, mentre essere dipendenti dai redditi del’ex coniuge le rende più povere insieme ai loro eventuali figli. In Italia infatti, più che in tutti gli altri paesi europei, il sistema di welfare non assicura aiuti sufficienti alle famiglie non intatte e il sistema di assegni post-separazione è rudimentale, non garantendo contributi regolari e sufficienti all’ex partner più debole. Le donne separate che non sono economicamente indipendenti e con un lavoro stabile, quindi, rischiano di trovarsi assieme ai figli (che sono sempre più spesso a loro affidati) in serie difficoltà economiche, soprattutto a breve termine”.
Daniela Del Boca, Letizia Mencarini, Silvia Pasqua, Valorizzare le donne conviene (2012)

 

“La disabilità […] come l’infanzia, richiede un grosso investimento umano in assistenza. Attualmente, gran parte di questo lavoro viene svolto dalle donne, e in genere senza essere pagato, come se fosse una conseguenza naturale dell’amore. […] La soluzione a questo problema coinvolge diversi aspetti: la sfera pubblica deve sostenere i permessi e i congedi dal lavoro per motivi medici e familiari, e i piani sanitari nazionali devono trovare qualche ragionevole soluzione per il problema politicamente delicato dell’assistenza a fine vita. […] Orari flessibili, telelavoro e altre forme di organizzazione devono essere affrontati senza esitazione. Infine, bisogna sviluppare una maggiore reciprocità fra donne e uomini: la società ha bisogno di nuove concezioni della virilità, che rifiutino l’idea che non sia compito dell’uomo lavare il corpo di un anziano genitore”.
Martha Nussbaum, Creare capacità (2011)

 

“Le politiche per l’occupazione femminile sono del tutto inefficaci se non sono accompagnate da politiche di conciliazione che agevolino le donne nel loro doppio ruolo di lavoratrici e di madri”.
Daniela Del Boca, Letizia Mencarini, Silvia Pasqua, Valorizzare le donne conviene (2012)

 

Precarizzazione

“Tutti quanti noi viviamo immersi in un’illusione magistrale, in un mondo scomparso che ci accaniamo a non voler riconoscere come tale, e che false politiche e politici bugiardi pretendono di perpetuare. Milioni di destini sono sconvolti, annientati da questo anacronismo, frutto di ostinati stratagemmi rivolti a consacrare come imperituro il più sacro dei nostri tabù: quello del lavoro. Sul lavoro, stravolto sotto la forma perversa di ‘impiego’ si fonda in effetti la civiltà occidentale, che a sua volta domina l’intero pianeta. […] Della ‘disoccupazione’ si parla dappertutto e continuamente. La parola, però, è oggi priva del suo reale significato, perché descrive un fenomeno diverso da quello, ormai obsoleto, che pretende di indicare. E ci intrattengono, al proposito, con faticose promesse, il più delle volte bugiarde, che lasciano intravedere irrisorie quantità di impieghi acrobaticamente lanciate sul mercato (in saldo); percentuali ridicole rispetto ai milioni di individui esclusi oggi dal mondo del lavoro salariato e che, a questo ritmo, continueranno a esserlo ancora per decenni. E allora, in che condizione reale si trovano oggi questi individui, la società, il cosiddetto ‘mercato del lavoro’? […] Ne consegue la marginalizzazione impietosa e passiva del numero immenso, ogni giorno in crescita, di quelli che cercano lavoro, i quali, ironia della sorte, per il fatto stesso di non averlo, sono entrati a far parte della norma contemporanea; norma che non viene riconosciuta come tale, nemmeno dagli stessi esclusi dal lavoro, al punto che sono proprio loro i primi (ci si prende cura che sia così) a viversi come incompatibili con una società di cui invece, senza saperlo, sono i prodotti più naturali. Vengono portati a considerarsi indegni di questa società, che giudicano degradante (in quanto degradata) e persino riprovevole. Si accusano di ciò di cui sono le vittime”.
Viviane Forrester, L’orrore economico (1996)

 

“La flessibilizzazione del mercato del lavoro in Europa ha portato a un aumento dell’incidenza dei contratti atipici, in particolare delle occupazioni part-time e dei contratti a tempo determinato. La flessibilizzazione, però, non ha inciso in maniera uguale su lavoratrici e lavoratori”.
Daniela Del Boca, Letizia Mencarini, Silvia Pasqua, Valorizzare le donne conviene (2012)

 

“Dappertutto le donne sono comunque meno occupate, con maggiori possibilità di contratti a tempo determinato o parziale e con rischi maggiori di restare intrappolate in lavori precari con scarse opportunità di transizione verso occupazioni stabili. Dappertutto restano i divari salariali di genere, che solo in parte possono essere spiegati con il tempo parziale scelto e non subito”.
Lidia Cirillo, L’emancipazione malata. Sguardi femministi sul lavoro che cambia (2010)

 

“La flexiqueerity non si avvale della grammatica del riconoscimento, non reclama la ‘sicurezza’ di poter riprodurre sempre e comunque la stessa orribile forma di società: il suo ‘tempo’ è scaduto. La ‘temporalità queer’, fatta di disinvestimento sul futuro e ‘arte del fallimento’ […] oggi si dimostra non più una categoria marcante la condizione di vita di una minoranza di persone disprezzate, bensì come la categoria temporale che governa le vite della maggioranza delle persone. I soggetti queer sono ‘già’ in un altro universo di senso, entro cui ‘tutti’ vengono sempre più ricacciati. […] Il tema del lavoro precario – peraltro sorpassato a causa della stessa ‘generalizzazione’ del precariato – troppo spesso eludeva il fulcro della contraddizione tra capitale e lavoro: lo sfruttamento. Da questo punto di vista, una sana diffidenza queer verso gli impulsi nostalgici anti-precarietà potrebbe riportare al centro il nodo attorno a cui ruota effettivamente (anche) la congiuntura apertasi con la crisi del 2008”.
Cristian Lo Iacono, Lavoro, affetti, “flexiqueerity”. Per la critica dell’economia degli affetti queer (2014)

 

“Il gay contemporaneo oltre che prototipo del consumatore senza riserve poteva essere pensato come prototipo del nuovo produttore di forza lavoro globale e flessibile. […] Non ha un radicamento al suolo in cui è nato o abita, e quindi è trasferibile; si situa nelle maglie produttive e immateriali della Metropoli globale; lavora in rete; è ricercato perché ritenuto più creativo; non ha legami affettivi stabili con un partner, non ha figli o non si occupa di loro in modo stabile, e dunque è più flessibile; anche per questa ragione può essere licenziato, spostato, trasferito più facilmente; non è vincolato ai tempi di vita della famiglia, alla quotidianità e ai cicli normativi del lavoro e del riposo. Il vantaggio, se così si può dire, delle soggettività queer è che i loro affetti non sono precarizzabili perché sono già precari. […] In cambio offrono […] flessibilità oraria, […], minori rigidità su quando andare in ferie […], minore rischio di assenze per permessi, malattie dei figli, ecc. Insomma, il consumatore totale è anche un produttore perfetto, nel senso che tutte le sue capacità fisiche, metafisiche, affettive e comunicative diventano forza lavoro per il capitale, sono cioè valorizzabili, sono fonte di plusvalore”.
Cristian Lo Iacono, Lavoro, affetti, “flexiqueerity”. Per la critica dell’economia degli affetti queer (2014)