LA CASA SUL FILO

suggerimenti per un percorso di educazione antiviolenta

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I Introduzione

L’identità è la RELAZIONE dinamica tra la RAPPRESENTAZIONE di sé corporea, mentale e relazionale e l’ESPERIENZA di sé corporea, mentale e relazionale.

Poiché CORPO, mente e relazioni non possono prescindere dall’essere sessuate/i (SESSO/SESSUALITÀ), l’identità è sempre sessuale, cioè esprime sempre, consapevolmente o inconsapevolmente, una differenza, a partire da quella primaria del dato biofisiologico e delle relazioni costruite nel/a partire dal CORPO.

Questa RELAZIONE ha un significato per me che la vivo (chi sono io) e per chi mi vive attorno (chi sei tu). Essa definisce allo stesso tempo la specificità nella quale mi riconosco (ciò che mi caratterizza) e la specificità che permette alle/agli altre/i di riconoscermi (ciò che mi distingue).

L’identità è al tempo stesso struttura e processo. Non è qualcosa che è, ma è qualcosa che diventa, nella capacità di memoria di sé che è la consapevolezza di esistere nel tempo consequenzialmente, attraverso i cambiamenti che ci trasformano e nell’assunzione delle nostre contraddizioni.

 

II La prospettiva degli studi di genere

Nella RAPPRESENTAZIONE psicoanalitica, in parte ripresa anche da alcuni studi femministi (FEMMINISMO), il processo di costruzione dell’identità è differente per bambine/ragazze/donne e bambini/ragazzi/uomini per la diversa specificità del rapporto originario con il CORPO della madre. Se infatti, per le prime, questo rapporto si sviluppa a partire da un’ESPERIENZA di similitudine, per i secondi, si sviluppa a partire da un’ESPERIENZA di alterità.

Questa ESPERIENZA tuttavia non conduce ai medesimi esiti identificativi e disidentificativi e la RAPPRESENTAZIONE che ne deriva non produce due soli possibili modelli, ma una molteplice varietà di interpretazioni.

La costruzione dell’identità infatti è strettamente connessa alla dimensione del GENERE intesa come cornice mobile dei processi di identificazione e di disidentificazione attraverso i quali ogni bambina/ragazza/donna e ogni bambino/ragazzo/uomo interpreta la RELAZIONE tra ESPERIENZA e RAPPRESENTAZIONE scegliendo e inventando corrispondenze, trasgressioni, alternanze, ambiguità e ambivalenze.

Il dato di precarietà/flessibilità che questa interpretazione introduce nella riflessione sull’identità ha portato a preferire il termine soggettività, ritenuto maggiormente rappresentativo della mobilità dell’ESPERIENZA e della contradditorietà/incoerenza della RAPPRESENTAZIONE, in contrapposizione al dato di continuità/coerenza che la parola identità sottende e alle implicazioni dominanti che, attraverso il meccanismo dell’identificazione univoca, essa trasferisce sul piano politico.

Pur ritenendo infatti importante l’identificazione ai fini della riconoscibilità del soggetto femminile-femminista (FEMMINISMO), la riflessione sulla soggettività apre alla considerazione dei nomadismi delle donne tra molteplici territori di appartenenza, fisici e simbolici, e alla necessità di riconoscere il valore costitutivo di questo andirivieni nella unicità soggettiva, piuttosto che identitaria, di ogni storia e di ogni narrazione.

All’interno di questo percorso si muove anche la teoria queer che assume la “non identificazione” come valore mobile e antibinario di decostruzione/ricomposizione dei tradizionali modelli identitari.

 

III La violenza maschile contro le donne

La questione dell’identità, evidenziata con forza dal movimento delle donne (FEMMINISMO), ha introdotto nella nostra società nuove prospettive e rappresentazioni (RAPPRESENTAZIONE): mentre in passato le identità e i ruoli (RUOLO) erano rigidamente codificati dalle società e dalle culture, ora esse appaiono mobili, non definibili a priori. Nell’ultimo secolo, l’entrata delle donne nel mondo del LAVORO, le lotte per i diritti civili, la conquista dell’autodeterminazione nella maternità, le leggi sul divorzio, le politiche di GENERE, hanno profondamente modificato il RUOLO individuale e sociale delle donne, suscitando una ridefinizione dell’identità femminile.

Le motivazioni culturali della VIOLENZA contro le donne non sono solo l’espressione di un POTERE dell’uomo sulla donna, considerata culturalmente e fisicamente inferiore, ma anche una reazione nei confronti di una donna diversa, nuova, la cui identità è stata ripensata e rielaborata in termini di autodeterminazione, di autonomia, di consapevolezza e di protagonismo.

L’incapacità da parte degli uomini di sperimentare nuovi comportamenti basati sul confronto e lo scambio li porta a scaricare frustrazioni, delusioni e umiliazioni sulla donna facendo leva sul POTERE che da sempre è stato loro riconosciuto istituzionalmente.

L’uomo, nella cultura occidentale, è assunto implicitamente come parametro dell’intera identità umana, e la donna è pensata solo in negativo, come ciò che differisce dal modello più alto dell’umanità. L’identità umana è pensata mettendo al centro l’uomo, il sesso (SESSO/SESSUALITÀ) maschile, ma senza dichiararlo. Il sesso (SESSO/SESSUALITÀ) maschile diventa il metro di misura dell’essere umano, mentre la donna è caratterizzata solamente in negativo, come ciò che si discosta da questo ideale.

Se accettiamo il presupposto che l’immagine di sé si costituisce e si mantiene essenzialmente mediante il riconoscimento dell’immagine che gli/le altri/e ci rinviano, cioè attraverso un processo di rispecchiamento basato su una accettazione/definizione reciproca, di differenze (DIFFERENZA), di limiti (LIMITE) e di ruoli (RUOLO), allora la VIOLENZA psicologica ci parla proprio della mancanza di riconoscimento dell’autonomia delle rispettive diversità.

Tutto può iniziare con una semplice mancanza di rispetto, con un po’ di falsità o un accenno di manipolazione. Atteggiamenti come insulti, umiliazioni, cose non dette, evidenze negate dalle menzogne, talvolta si accompagnano alle più esplicite forme di aggressività, risultando invalidanti e svalorizzanti per chi le subisce. Si tratta di forme di VIOLENZA poco visibili ma molto dolorose; di una VIOLENZA difficile da dimostrare, strettamente legata alla percezione soggettiva, laddove i confini tra normalità e VIOLENZA sono molto sfumati e non sempre decifrabili attraverso segni evidenti. Lo scopo di tale VIOLENZA è destabilizzare l’altra/o e farla/o dubitare di sé e degli/delle altri/e. Tutto questo può avere effetti devastanti e condurre alla perdita della propria identità.

Tantissimi sono gli esempi che si possono fare per dimostrare come la VIOLENZA contro le donne sia uno strumento per colpire il GENERE femminile e l’identità delle donne evidenziandone il ruolo di subalternità: la VIOLENZA sessuale, lo stupro, i maltrattamenti e le molestie sessuali perpetuate quotidianamente all’interno di relazioni di fiducia, nei posti di lavoro, per le strade.

La VIOLENZA sessuale (SESSO/SESSUALITÀ), per esempio, rappresenta l’oltraggio più alto dell’identità della donna. Qui infatti i limiti psichici e fisici vengono brutalmente oltrepassati, la donna viene aggredita nel suo aspetto più intimo e, in un primo momento, completamente distrutta nella sua identità di persona. Qualsiasi forma di abuso rappresenta una grave umiliazione che colpisce direttamente l’immagine che la donna ha di sé e la sua autostima. 

Ci sono situazioni di VIOLENZA nelle quali oltre al desiderio di sottomettere la donna subentra una concreta volontà di annullarne ogni dettaglio fisico, di sopprimerne l’identità. Donne come Lucia Annibali (2013) e Gessica Notaro (2017), aggredite con l’acido in volto e derubate della propria fisionomia. Il viso è lo strumento attraverso il quale prioritariamente costruiamo interazioni con gli altri e le altre: cancellarne ogni tratto distintivo mina il riconoscimento di sé, ma anche il riconoscimento da parte degli altri e delle altre, ostacolando quel lungo percorso di crescita e costruzione dell’identità che dura tutta una vita.