“È importante innanzitutto ricordare come la categoria di genere si differenzi profondamente da quella di sesso: mentre quest’ultima, infatti, fa riferimento alle differenze biologiche fra maschi e femmine, la seconda si riferisce ad una costruzione culturale, al modo in cui nelle diverse società si definiscono e si strutturano il femminile e il maschile. L’uso della categoria di gender implica dunque una critica radicale al determinismo biologico nella definizione delle identità di uomini e di donne e delle loro relazioni”.
Maura Palazzi, Storia delle donne e storia di genere in Italia (2000)
“Il sistema sesso-genere […] è l’insieme dei dispositivi mediante i quali una società trasforma la sessualità biologica in prodotti dell’attività umana, e nei quali sono soddisfatti i bisogni sessuali trasformati”.
Gayle Rubin, The Traffic in Women. Notes on the “Political Economy” of Sex (1975)
“Il termine gender è una rappresentazione. Una rappresentazione non solo nel senso in cui ogni parola, ogni segno, si riferisce al suo referente (lo rappresenta), sia esso un oggetto, una cosa, o un essere animato. Infatti il termine gender è la rappresentazione di una relazione, vale a dire la relazione di appartenenza a una classe, un gruppo, una categoria. Il genere è la rappresentazione di una relazione [e] assegna a un’entità, diciamo a un individuo, una posizione in seno a una classe”.
Teresa De Lauretis, Sui generis. Scritti di teoria femminista (1996)
“L’articolazione delle categorie di genere e orientamento come le conosciamo oggi non era ancora contemplata [negli anni Settanta] per cui l’equazione era più o meno la seguente: io mi sento donna, sono donna, mi pongo come tale, ripropongo la quintessenza della femminilità talmente straordinaria da non essere reale, il mio fidanzato mi corrisponde al cento per cento, esteticamente, sessualmente, simbolicamente quindi assolutamente eterosessuale, altrimenti con me non ci starebbe o perché non vorrei io o perché non potrebbe lui. Per quanto paradossale, quella era la prospettiva, discutibile dal punto di vista scientifico, ma estremamente reale dal punto di vista culturale e del simbolico a esso associato”.
Porpora Marcasciano, L’aurora delle transcattive (2018)
“Sostenere che il genere sia performativo, tuttavia, non significa tanto insistere sul diritto di ciascuna/o di produrre uno spettacolo piacevole, o forse sovversivo; significa, piuttosto, cercare di attribuire un significato ai modi spettacolari e consequenziali attraverso i quali la realtà viene, al contempo, messa in discussione e tuttavia riprodotta”.
Judith Butler, Fare e disfare il genere (2004)
“La struttura delle relazioni di genere non esiste al di fuori delle pratiche attraverso le quali gli individui e le collettività gestiscono quelle stesse relazioni. Le strutture non possono continuare a esistere, né tanto meno essere ‘durature’, se non vengono ricostruite in ogni istante nella prassi sociale. […] Il genere è qualcosa che si fa concretamente, e che si fa nella vita sociale; non è qualcosa che esiste prima della vita sociale stessa, o al di fuori di essa”.
Robert Connell, Questioni di genere (1987)
“La concezione cristiana del genere ha, in chi accede alla vita religiosa, staccato il maschile e il femminile dalle pratiche del piacere e della riproduzione. Essere uomini e donne vergini significa essere più uomini e più donne per il semplice fatto che l’appartenenza al genere non è una bassa questione di genitali. Anzi. È un alto problema di testa. È identificazione con un tipo o un modello di genere stabilito dalla cultura religiosa a partire dal sesso con cui si è nati e che però non può essere usato. La concezione cristiana del genere si è dunque costituita, come ho cercato di dire, sulla base di una (chiamiamola così) ‘spiritualizzazione’ dei caratteri che fanno l’uomo e la donna. Questo significa, per chi abbia una qualche familiarità con la psicoanalisi e intenda utilizzarla nella ricerca storica, che si è formato nel cristianesimo un ‘piacere’ di essere maschi o femmine per il solo fatto di avere ‘un’anima’ maschile o femminile [... ]Maschile e femminile si ricostruiscono in questa nicchia del soggetto ripiegato su se stesso e teso a cogliere i piaceri dell’interiorità che occupano progressivamente tutto lo spazio libidico reso disponibile dall’astinenza sessuale. Ebbene. Anche la consapevolezza di genere segue questo slittamento. Il soggetto infatti si costruisce un’identità di genere che sia emanazione diretta dell’interiorità e si muova quindi in modo del tutto indipendente dall’esteriorità”.
Valerio Marchetti, Fissazioni e transizioni (2000)
“Il genere, come la sessualità, non è una proprietà dei corpi o qualcosa che esiste in origine negli esseri umani, bensì, ‘l’insieme degli effetti prodotti nei corpi, nei comportamenti e nelle relazioni sociali’, come dice Foucault, dallo spiegamento di ‘una complessa tecnologia politica’”.
Teresa De Lauretis, Sui generis. Scritti di teoria femminista (1996)
“Poiché l’identità di genere si differenzia prima che il bambino sia in grado di parlare, la si è considerata un tratto innato. Ma non è così: nasciamo con un qualcosa che è pronto a diventare la nostra identità di genere, siamo predisposti ma non programmati per il genere nello stesso senso in cui siamo predisposti ma non programmati per il linguaggio. La nostra identità di genere non può differenziarsi in maschile o femminile in assenza dello stimolo sociale così come la gonade indifferenziata da cui ha inizio la nostra vita non avrebbe potuto trasformarsi in testicoli o in ovaie senza lo stimolo dei cromosomi Y o X. L’interazione tra la disposizione innata al genere e i segnali che ci pervengono nei primissimi anni di vita postnatale ci consentono di identificarci quali maschi o femmine”.
John Money e Patricia Tucker, Essere uomo, essere donna (1975)
“Il genere non andrebbe concepito come mera iscrizione culturale di significato su un sesso già dato (concezione giuridica); il genere deve anche designare quell’apparato di produzione per mezzo del quale vengono istituiti i sessi. Ne consegue che il genere non sta alla cultura come il sesso non sta alla natura; il genere è anche il mezzo discorsivo/culturale con cui la ‘natura sessuata’ o un ‘sesso naturale’ vengono prodotti e fissati in quanto ‘pre-discorsivi’, precedenti la cultura, una superficie politicamente neutrale su cui agisce la cultura”.
Judith Butler, Questione di genere. Il femminismo e la sovversione dell’identità (1999)
“Come la cultura, il genere è una produzione umana che dipende dalla ‘creazione’ continua che ogni individuo ne fa. Ciascuno di noi ‘crea il genere’ senza pensarci [...]. Per l’individuo, la costruzione del genere inizia con l’assegnazione a una categoria sessuale sulla base dell’aspetto, alla nascita, degli organi genitali”.
Judith Lorber, L’invenzione dei sessi (1994)
“Se il genere è costruito non è necessariamente costruito da un ‘io’ o da un ‘noi’ che precedono – temporalmente e spazialmente – quella costruzione. Infatti, è incomprensibile che possa esistere un ‘io’ o un ‘noi’ che non sia stato sottoposto, assoggettato al genere. […] Assoggettato al genere, ma reso soggetto dal genere stesso, l’‘io’ non precede e non segue il processo di attribuzione di un genere, ma emerge solo all’interno e in qualità di matrice di relazioni di genere. […] La costruzione del genere opera attraverso mezzi esclusivi, cosicché l’umano non è prodotto solo come sostituzione e opposizione dell’inumano, ma attraverso una serie di preclusioni, di cancellature radicali, alle quali è negata la possibilità di articolazione culturale. […] Questi quesiti costituiscono il confine esterno dell’‘umano’ e rappresentano per questi confini la possibilità continua della loro rottura e della loro riarticolazione”.
Judith Butler, Corpi che contano. I limiti discorsivi del ‘sesso’ (1997)
“Abbiamo il vero sé di genere, la cui base è evidente alla nascita, ma che poi va in molte direzioni diverse a seconda di come, durante l’infanzia, interagiamo con l’ambiente sociale e di come esso interagisce con noi. […] Poi abbiamo il falso sé di genere, quel rivestimento protettivo nel quale aviluppiamo il nostro nucleo di genere nell’incontrare il mondo e nel valutare quanto sia sicuro o pericoloso per il nostro vero sé di genere venire allo scoperto. Infine, abbiamo la creatività di genere, cioè i nostri sforzi per intessere e mantenere vivo un nostro unico e autentico sé di genere, basato sui sentimenti di identità e sulle espressioni di genere prescelte”.
Diane Ehrensaft, Il bambino gender creative (2016)
“Il concetto di genere deve essere considerato non solo come la costruzione culturale del sesso, ma anche come una pratica relazionale che emerge dalle interazioni tra gli individui, una tensione tra due poli dicotomici – il maschile e il femminile – che si definiscono continuamente l’uno in relazione all’altro. In questa prospettiva, piuttosto che qualcosa ‘che abbiamo’, come suggerisce il linguaggio comune, il genere si configura come qualcosa ‘che facciamo’ con e per gli altri. E dunque, non qualcosa che necessita di un corpo di un determinato sesso per esistere (per esempio la corrispondenza necessaria tra il sesso femminile e il genere femminile), ma qualcosa che si dà come repertorio culturale disponibile agli individui per costruire le proprie performance di genere. L’esperienza della transessualità, proprio perché si colloca in una posizione di confine nella relazione tra corpo e genere, è particolarmente eloquente per esplorare il genere come fare, piuttosto che come proprietà (seppur culturale) dei soggetti”.
Cristina Gamberi, Maria Agnese Maio, Giulia Selmi, Educare al genere. Spunti per una cornice interpretativa (2010)
“Le persone stanno rifiutando sempre più i concetti tradizionali di maschio e femmina. Forse tutti stiamo capendo che il concetto di genere è principalmente un costrutto. Sì, c’è chi pensa che veniamo definiti al cento percento dalla nostra biologia e dai nostri geni, però questo non ci porterà da nessuna parte. Ha detto Chaz Bono: ‘Il genere è tra le nostre orecchie, non tra le nostre gambe’. Niente di più vero. Dal momento che non possiamo sapere se essere maschio vuol dire una cosa, ed essere femmina un’altra (perché possiamo basarci unicamente sulla nostra esperienza individuale), possiamo solo avere il controllo sul modo in cui desideriamo esprimere le nostre identità personali. Per alcuni è la femmina intesa tradizionalmente, per altri è il maschio, ma per moltissimi non è né l’una né l’altro. Indovinate un po’? Va bene. ‘Non-binario’ o ‘fluidità di genere’ stanno diventando identità a pieno titolo, quindi tutti saremo liberi di esprimere il nostro genere come vorremo”.
Juno Dawson, Questo libro è gay (2018)
“L’intreccio di genere suggerisce che il genere è una costruzione tridimensionale e che tutti i bambini costruiscono il loro intreccio di genere intessendo i tre fili principali – natura, educazione e cultura – per arrivare a trovare quel genere che corrisponde al loro ‘io’. La natura include cromosomi, ormoni, recettori ormonali, gonadi, caratteristiche sessuali primarie e secondarie, cervello e mente. L’educazione include le pratiche di socializzazione e le relazioni intime e, di solito, è insita nella famiglia, nella scuola, nei rapporti con i coetanei e nelle istituzioni religiose e comunitarie. La cultura include i valori, l’etica, le leggi, le teorie e le pratiche di una particolare società. Come per le impronte digitali, non ci sono due bambini che abbiano un identico intreccio di genere, e lo stesso vale per l’intreccio di genere di ogni adulto. Diversamente dalle impronte digitali, tuttavia, l’intreccio di genere può variare in una miriade di modi dalla nascita alla morte. Il genere non è scolpito nella pietra a partire dai sei anni di età, come mi è stato insegnato durante il mio training da psicologa molti decenni fa, ma può cambiare nel corso di una vita, per cui tutti noi – voi, io e chiunque altro – continueremo a mettere a punto il nostro intreccio di genere fino al giorno della nostra morte. È qui che entra in gioco la quarta dimensione dell’intreccio di genere: il tempo. Il genere non è statico, ma cambia nell’arco del tempo”.
Diane Ehrensaft, Il bambino gender creative (2016)
“Il genere dunque non si sovrappone a posteriori come una forma culturale che accoglie in sé le differenze fisiche preesistenti tra uomini e donne, ma è il modo in cui storicamente e socialmente, in un determinato contesto, si attribuiscono significati (variabili) a quelle stesse differenze fisiche e rilevanza ai fini della differenziazione sociale”.
Simonetta Piccone Stella e Chiara Saraceno (a cura di), Genere. La costruzione sociale del femminile e del maschile (1996)
“Il genere non è qualcosa che esiste nei corpi o qualcosa che esiste in origine negli esseri umani. Il genere è una rappresentazione il che non significa che non abbia implicazioni concrete o reali, sia sociali sia soggettive, nella vita materiale degli individui”.
Teresa De Lauretis, Sui Generis. Scritti di teoria femminista (1996)
“Il genere rappresenta dunque sia lo sbocco che il punto di partenza di un processo di costruzione sociale. L’acquisizione di questo strumento conoscitivo mette in grado le donne di agire per modificare le condizioni che lo strumento rileva. In sostanza, intorno al genere e al soggetto si giocano due partite, continuamente ridefinite nelle loro regole: quella che consente l’autodefinizione e quella che consente l’autoprogettazione”.
Simonetta Piccone Stella e Chiara Saraceno (a cura di), Genere. La costruzione sociale del femminile e del maschile (1996)
“Viviamo ormai all’incrocio tra il corporeo e il tecnologico ed è quindi importante ripensare il nostro vissuto in questo senso: il corpo è infatti una superficie di incrocio di molteplici e mutevoli codici d’informazione, a partire dal codice genetico fino a quelli dell’informatica. […] Come ripensare l’unità del soggetto umano, senza fare riferimento ai credo umanistici, senza opposizioni dualistiche, collegando invece mente e corpo in un nuovo flusso del sé? […] Per attivare un’etica non nostalgica, che sia all’altezza delle complessità del bio-potere, occorrono quindi miti fondanti alternativi. Ci serve una nuova sintassi che accompagni le strutture di un immaginario sociale dove il gender comporta non solo due, o cinque categorie, ma una diversità inafferrabile”.
Rosi Braidotti, L’era del bio-potere (1995)
“Sulla base degli organi genitali si potrebbe affermare che nelle società occidentali esistono cinque sessi: inequivocabilmente maschio, inequivocabilmente femmina, ermafrodita, transessuale da femmina a maschio e transessuale da maschio a femmina; sulla base della scelta dell’oggetto esistono tre orientamenti sessuali: eterosessuale, omosessuale e bisessuale (con tutte le variazioni legate al travestitismo, al sadomasochismo e al feticismo), in base all’apparenza ci sono cinque modi per mostrare il genere: femminile, maschile, ambiguo, travestita da uomo e travestito da donna (o forse solo tre); sulla base dei legami emotivi esistono sei tipi di relazioni: amicizia intima, amore non erotico (tra genitori e figli, fratelli e sorelle, altri parenti e amicizie di vecchia data), amore erotico, passione, lussuria e violenza sessuale; sulla base della rilevante affiliazione a un gruppo esistono dieci forme di autoidentificazione: donna eterosessuale, uomo eterosessuale, donna lesbica, uomo gay, donna bisessuale, uomo bisessuale, donna travestita, uomo travestito, donna transessuale, uomo transessuale (forse sono quattordici, se i travestiti e i transessuali si identificano anche come lesbiche o gay)”.
Judith Lorber, L’invenzione dei sessi (1994)
Binarismo e controbinarismo di genere
“Nel momento in cui la differenza sessuale smette di essere l’attributo di una persona, essa assume la forma del genere e quando si esplica nelle relazioni fra persone essa assume la forma della sessualità. Il genere emerge in quanto forma cristallizzata della sessualizzazione dell’ineguaglianza tra uomini e donne”.
Catharine Alice Mackinnon, Feminism unmodified: discourses on life and law (1987)
“Il genere è un fattore primario nella manifestazione dei rapporti di potere: è un terreno all’interno del quale viene elaborato il potere. I concetti di genere strutturano la percezione e l’organizzazione concreta e simbolica di tutte le forme della vita sociale”.
Pierre Bourdieu, Il dominio maschile (1998)
“In primo luogo […] il concetto genere […] non si limita a segnalare una esperienza di subordinazione, o oppressione, delle donne rispetto agli e da parte degli uomini, ma pone in modo radicale la questione della costruzione sociale della appartenenza di sesso. In secondo luogo nega la possibilità che la condizione femminile […] possa venir analizzata in modo isolato, separato da quella maschile. […] Soltanto l’attiva influenza dei due sessi l’uno sull’altro, i loro legami, i loro contrasti, creano la condizione femminile e la condizione maschile, quelle modalità di vita cioè in cui i due sessi intrecciano la propria esistenza. Genere dunque, oltre che un codice binario, è anche un codice che implica reciprocità, dialettica costante fra le sue componenti di base”.
Simonetta Piccone Stella e Chiara Saraceno (a cura di), Genere. La costruzione sociale del femminile e del maschile (1996)
“Il genere è un elemento costitutivo delle relazioni sociali fondate su una cosciente differenza fra i sessi e [...] un fattore primario del manifestarsi dei rapporti di potere”.
Joan Scott, Il “genere”: un’utile categoria di analisi storica (1986)
“Trattare le donne isolatamente dagli uomini di solito ci dice poco sul significato dei ruoli sessuali nella vita sociale e nei periodi di mutamento”.
Natalie Zemon Davis, La storia delle donne in transizione: il caso europeo (1992)
“Il genere si consolida soprattutto in maniera relazionale come differenziazione rispetto al genere opposto”.
Elisa AG Arfini, La ricercatrice vulnerabile. Percorsi narrativi di co-costruzione di genere, sessualità e dis/abilità (2014)
“Quindi ne consegue che il genere è l’organizzazione sociale della differenza sessuale. Ma questo non significa che il genere rispecchia o determina delle differenze fisiche naturali e fisse fra la donna e l’uomo; piuttosto il genere è quella conoscenza che stabilisce i significati per le differenze corporee. […] Non possiamo vedere le differenze sessuali che non in funzione della nostra conoscenza del corpo e tale conoscenza non è ‘pura’, non può essere isolata dalla sua implicazione in un’ampia gamma di contesti discorsivi”.
Joan Scott, Il “genere”: un’utile categoria di analisi storica (1986)
“Il genere non rappresenta esattamente quello che si ‘è’ e neppure quello che si ‘ha’; rappresenta, piuttosto, il sistema attraverso cui hanno luogo la produzione e la normalizzazione del maschile e del femminile, unitamente a forme interstiziali assunte dal genere: ormonali, cromosomiche, psichiche, performative. Pertanto, presupporre che il genere coincida sempre ed esclusivamente con le matrici del ‘maschile’ e del ‘femminile’ significa non cogliere il senso critico secondo cui la produzione di questo binarismo è contingente, e ha un prezzo, e che le mutazioni di genere che non rientrano in tale binarismo fanno parte del genere tanto quanto le sue istanze più normative”.
Judith Butler, Fare e disfare il genere (2004)
“La diagnosi di disforia di genere significa che un bambino ha preoccupazioni di genere e questo gli causa stress. La nuova diagnosi di genere è decisamente un passo avanti rispetto alla classificazione come disturbo dell’identità di genere, che implicava una patologia e l’applicazione di norme binarie di accettabilità di genere dettate dalla cultura. […] La non conformità di genere non è un disturbo infantile, ma una sana variazione delle possibilità del genere che possono affiorare nel corso della vita di un bambino, e può avere un buon effetto se esistono i giusti supporti sociali. […] Finché pene equivarrà a maschio e vagina a femmina, indurremo la disforia di genere, soprattutto fisica, nei bambini gender creative. Quando porteremo l’ordine sociale a pensare in termini di persona con un pene o di persona con una vagina, il maschietto con la vagina o la bambina con il pene non si sentiranno più come un fenomeno sociale così sconcertante”.
Diane Ehrensaft, Il bambino gender creative (2016)
“Si pensi che la sedimentazione delle norme di genere produce il fenomeno peculiare di un ‘sesso naturale’ o di una ‘donna vera’ o di qualunque altra finzione sociale prevalente, che impone di essere rispettata, e si pensi che questa è una sedimentazione che nel tempo ha prodotto una serie di stili corporei che, in forma reificata, appaiono come la configurazione naturale dei corpi in sessi che esistono in una reciproca relazione binaria. Se questi stili sono messi in atto, e se producono soggetti coerenti dal punto di vista del genere, nella postura di ciò che li origina, quale tipo di performance potrà rivelare che questa causa apparente è un effetto?”.
Judith Butler, Questione di genere. Il femminismo e la sovversione dell’identità (1999)
“Il genere è il meccanismo attraverso cui vengono prodotte e naturalizzate le nozioni di maschile e femminile, ma potrebbe anche rappresentare lo strumento tramite il quale decostruire e denaturalizzare tali termini”.
Judith Butler, Fare e disfare il genere (2004)
“Tener conto del genere non significa solamente addizionare ai nostri dati un dato prima trascurato, ma aprire una prospettiva diversa sul panorama dei dati nel suo complesso. Non si tratta di colmare un’assenza (non solo), ma di riesaminare criticamente l’insieme”.
Simonetta Piccone Stella e Chiara Saraceno (a cura di), Genere. La costruzione sociale del femminile e del maschile (1996)
“La dimensione del genere non è un destino scritto sui corpi ma un’ecologia di fattori. L’obiettivo di educare al genere non è quello di formare al ‘vero uomo’ e alla ‘vera donna’ ma è quello di aprire uno spazio in cui [ogni bambino e ogni bambina] si senta libero di trasgredire i modelli dominanti”.
Cristina Gamberi, Maria Agnese Maio, Giulia Selmi, Educare al genere. Spunti per una cornice interpretativa (2010)
“Vent’anni fa fu un concetto molto liberatorio perché consentì a noi donne di sbarazzarci definitivamente del biologismo e del ‘naturale’ e di acquisire consapevolezza che ciò che definiamo uomo e donna è in gran parte una costruzione culturale”.
Maria-Milagros Rivera Garretas, Nominare il mondo al femminile (1994)
“Originariamente intesa come ciò che avrebbe messo in discussione l’idea che la biologia sia un destino, la distinzione tra sesso e genere serve a sostenere la tesi che, mentre il sesso dal punto di vista biologico è variamente resistente, il genere è costruito culturalmente: di conseguenza il genere non è il risultato causale del sesso, né ha, pare, la stessa fissità. L’unità del soggetto viene così già potenzialmente contestata da quella distinzione che permette di vedere il genere come interpretazione multipla del sesso. Se il genere consiste nei significati culturali assunti dal corpo sessuato, allora non si può dire che un genere derivi univocamente da un sesso. Portata alle sue estreme conseguenze logiche, la distinzione tra sesso e genere suggerisce una radicale discontinuità tra corpi sessuati e generi culturalmente costruiti. Pur assumendo provvisoriamente la stabilità del binarismo sessuale, non ne consegue che la costruzione degli ‘uomini’ derivi esclusivamente da corpi di sesso maschile [male] o che il termine ‘donne’ interpreti solo corpi di sesso femminile [female]”.
Judith Butler, Questione di genere. Il femminismo e la sovversione dell’identità (1999)
“La costruzione del genere si realizza anche mediante la sua stessa decostruzione, e quindi tramite qualsiasi discorso, femminista o meno, che intenda rifiutarlo o minimizzarlo come falsa rappresentazione ideologica. Il genere infatti, come il reale, non è solo l’effetto della rappresentazione, ma anche il suo eccesso, ciò che rimane fuori del discorso, un trauma potenziale che può destabilizzare, se non contenuto, qualsiasi rappresentazione”.
Teresa De Lauretis, Sui generis. Scritti di teoria femminista (1996)
Queer
“‘Uomo’ e ‘donna’ sono categorie al tempo stesso vuote e sovrabbondanti. Vuote perché non hanno un significato definitivo e trascendente; sovrabbondanti perché, anche quando sembrano fisse, continuano a contenere al proprio interno definizioni alternative, negate o soppresse”.
Joan Scott, Il “genere”: un’utile categoria di analisi storica (1986)
“Il genere non dovrebbe essere concepito come un sostantivo o come un oggetto sostanziale, oppure ancora un marcatore culturalmente stabile, ma anzi come una sorta di azione incessante e ripetuta. Se il genere non è legato al sesso, come sua causa o come sua espressione, allora il genere è un tipo di azione che può potenzialmente proliferare al di là dei limiti binari imposti dall’apparente binarismo del sesso. Il genere sarebbe davvero un tipo di azione culturale/corporea che richiede un nuovo vocabolario che istituisca e faccia proliferare vari tipi di participi presenti, categorie di risignificazione ed espansione che resistano alle restrizioni grammaticali binarie e sostanzializzanti imposte al genere”.
Judith Butler, Questione di genere. Il femminismo e la sovversione dell’identità (1999)
“Le differenze tra i sessi sono relative, e non assolute. Possiamo assegnarle a nostro piacimento, previo riconoscimento di due fattori semplicissimi: primo, che sono gli uomini a fecondare e le donne ad avere mestruazioni, a portare avanti la gravidanza e ad allattare, e secondo, che gli individui adulti non possono alterare il nucleo centrale dei loro schemi di genere”.
John Money e Patricia Tucker, Essere uomo, essere donna (1975)
“Se l’autenticità del genere non è data da una natura chiaramente identificabile ma da ciò che qualcuno dichiara, allora c’è sempre la possibilità di dichiarare qualcos’altro”.
Suzanne Kessler, La costruzione medica del genere: il caso dei bambini intersessuati (1996)
“Usato in senso spregiativo nei confronti degli omosessuali nel corso del XIX secolo, queer è un termine anglosassone che sta per ‘strano’, ‘bizzarro’, e a sua volta deriverebbe dal tedesco quer, ‘diagonale’, ‘di traverso’”.
Laura Schettini, Gli studi e la politica queer (2015)
“La scelta strategica di nominare e nominarsi diversamente, queer, indica […] una svolta linguistica, una focalizzazione sulla sessualità non in quanto realtà oggettiva bensì come terreno mutevole continuamente ridefinito dai discorsi, dalle rappresentazioni e auto-rappresentazioni di specifici soggetti culturali; la nominazione non è neutra, costituisce relazioni epistemologiche fra categorie e pone in essere soggetti sociali, non ultimi quelli omosessuali. Da invertito a omosessuale, da omosessuale a gay e lesbica, sino a queer i nomi sono stati la base di identificazioni e alleanze, di percezioni di sé e di politiche molto diverse. Neppure il nome gay è puro termine descrittivo, ma il segno storico di una auto-nominazione legata alla positività e all’orgoglio del movimento post-Stonewall. La riappropriazione del termine queer, dunque, è significativa per almeno due motivi: è un termine che nella lingua inglese del Novecento è venuto a connotarsi come forma di hate speech la cui aggressiva riappropriazione è segnale di una strategia di attacco all’omofobia da giocarsi sul terreno stesso del linguaggio omofobico; in secondo luogo, è un termine che può riferirsi indistintamente a gay, lesbiche e a ogni altro soggetto sessuale percepito come perverso, deviato, anormale e fuorilegge (cfr. gli addensamenti semantici nei significati queer: strano, bizzarro, non regolare, inautentico). Può dunque operare come termine inclusivo, trasversale, che non ubbidisce al binarismo eterosessuale/omosessuale naturalizzatosi anche grazie alla costituzione di soggetti e comunità omosessuali legati all’idea di una identità sessuale naturale, innata o radicata in una differenza assoluta. Rinominarsi queer significa introdurre una differenza, anzi moltiplicare il discorso delle differenze: non solo le differenze fra gay e lesbiche, e all’interno sia della comunità gay che di quella lesbica (la cui omogeneità tende a essere sovra-rappresentata da discorsi e strategie identitarie), ma anche la differenza fra le categorie sessuali naturalizzate dalla sessuologia positivista”.
Marco Pustianaz, Studi queer (2003)
“Nell’uso comune il termine queer ha assunto una valenza politica, che indica la paradossale ‘comunità di quelli che non hanno comunità’ al livello del sessuato riconosciuto. Essendo le identificazioni di sesso sovradeterminate dall’iscrizione biologica ed estendendosi questa appartenenza alle (due) comunità di genere che duplicano nella cultura quella identità originaria, la torsione diagonale operata dal queer disarticola questa estensività verticale del paradigma naturalistico sino ad alterare e ridefinire la stessa categoria culturale del genere”.
Fabrizia Di Stefano, Il corpo senza qualità. Arcipelago queer (2010)
“Fatto e disfatto – dal linguaggio, dalle relazioni, dalle norme – il genere è il luogo di una crisi, e di una precarietà permanente”.
Federico Zappino, Il genere luogo precario (2004)
“Il queer funziona come un gesto di interpellazione che chiama e resistere, reclamare, inventare, opporre, sfidare, contestare, aprire, arricchire, facilitare, disturbare, produrre, minare, denunciare, svelare, criticare, rivelare, oltrepassare, trasgredire, sovvertire, disturbare, impugnare, celebrare, interrogare, controbattere, provocare e ribellarsi; […] ha come caratteristiche fluidità, über-inclusività, indeterminatezza, indefinibilità, inconoscibilità, assurdità, impossibilità, impensabilità, inintelligibilità, insignificanza e l’irrappresentabile come tentativo di disfare grovigli normativi e modellare alternative immaginarie”.
Nooren Giffney e Myra Hird (a cura di) Queering the Non/Human (2008)
“Con il binarismo minorizzante/universalizzante, propongo un’alternativa specifica al binarismo essenzialista/costruttivista (benché i due non siano equivalenti), poiché se entrambi possono svolgere lo stesso tipo di lavoro analitico, il primo lo farà sicuramente in maniera più efficace. Ritengo che esso consenta di focalizzare meglio l’attenzione sulle principali zone di attraversamento delle questioni ontogenetica e filogenetica e credo ugualmente […] che sia molto più rispettoso delle autodescrizioni individuali”.
Eve Kosofsky Sedgwick, Nelle segrete stanze (1990)