“Abbasso gli immigrati che entrano, buona fortuna ai capitali che escono! È più facile prendersela con i deboli che arrivano, o che sono già arrivati, magari anche da molto tempo, che con i potenti che disertano! Non dimentichiamo che se questi emigrati emigrano in paesi più prosperi dei loro, questi stessi paesi, tra i quali il nostro, sono andati da loro e continuano ad andarci, e non solo per la questione dei salari a basso costo. Ci vanno per estrarre le loro materie prime, le loro risorse naturali, quando non le hanno già completamente esaurite. Non dare, non distribuire è una cosa, ma razziare, portar via, impadronirsi dei beni, col pretesto che si è meglio qualificati per farli fruttare (a vantaggio di altre regioni) è una cosa diversa”.
Viviane Forrester, L’orrore economico (1996)
“La penetrazione coloniale operata sui popoli del Magreb ha causato morti e ferite. All’inizio il disprezzo per l’Altro e l’etnocidio dell’intollerabile differenza. Privati della loro identità, degli uomini si sono visti spogliati anche della loro terra. Era rimasto loro soltanto il corpo. Nudo. Fu messo a disposizione della redditività. Non v’era un catasto, né per la memoria né per la terra. […] Si trapiantano degli uomini, li si separa dalla vita per estrarne e sfruttanre meglio la forza lavoro, ma si cerca anche d’annientarne la memoria e d’ostacolarne il divenire in quanto soggetti che hanno facoltà di desiderare”.
Tahar Ben Jalloun, L’estrema solitudine (1977)
“Così tacitamente minacciati veniamo immobilizzati in spazi sociali condannati, in quei luoghi anacronistici che si autodistruggono ma nei quali noi siamo così perdutamente, così stranamente desiderosi di restare, mentre l’avvenire si organizza sotto i nostri occhi in funzione della nostra assenza già più o meno scientemente programmata”.
Viviane Forrester, L’orrore economico (1996)
“Libero dai legami con i suoi, lo straniero si sente ‘completamente libero’. L’assoluto di questa libertà si chiama però solitudine, come lo stato agravitazionale degli astronauti, distrugge i muscoli, le ossa, il sangue. Disponibile, liberato da tutto, lo straniero non ha nulla, non è nulla”.
Julia Kristeva, Stranieri a se stessi (1988)
“La diaspora globale ha enormi implicazioni per un’economia mondiale tenuta insieme da una fitta rete di flussi transnazionali di capitale e di forza lavoro. Un sistema di questo tipo è segnato da processi interni di migrazione che implicano mobilità, flessibilità oppure precarietà delle condizioni di lavoro, temporaneità e residenze non permanenti. Da ultimo, ma non da meno, la globalizzazione riguarda la deterritorializzazione dell’identità sociale, il che mette in discussione l’egemonia degli Stati nazionali e la loro pretesa di cittadinanza esclusiva”.
Rosi Braidotti, Trasposizioni. Sull’etica nomade (2006)
“Suppongo che le domande che dovrei formulare circa le migrazioni, specie quando sono forzate, debbano essere le seguenti: quali forme di perdita subiscono coloro che sono costretti e emigrare? Quale tipo di dissonanza sperimentano coloro che non hanno più una casa nel proprio paese e non ne possiedono ancora una nel nuovo, ma vivono in una zona di sospensione della cittadinanza? Quali forme assumono il dolore e la sofferenza per un’ininterrotta colonizzazione? Cosa significa sentirsi sradicati dalla propria terra, come nell’attuale caso dell’occupazione della Palestina?”.
Judith Butler, Fare e disfare il genere (2004)
“Il vero motore dei processi di globalizzazione è la retorica del superamento del limite. […] Nella Postmodernità il limite per eccellenza da abbattere è la frontiera, intesa dalle istituzioni della globalizzazione essenzialmente come barriera doganale, e dal popolo-mondo come confine nazionale. A fronte di un globo senza limiti territoriali per i beni, i capitali e pian piano anche per i servizi, come è noto, la libera circolazione delle persone è avversata e criminalizzata: le legislazioni degli Stati che guidano la globalizzazione innalzano muri all’immigrazione lungo i confini esterni e all’interno dello spazio pubblico da cui i migranti sono esclusi. Una globalità basata sul superamento del limite territoriale si sta costruendo, infatti con l’innalzamento di muri e internamenti contro movimenti migratori strutturali e sistemici”.
Laura Ronchetti, Globalizzazione. Tutti i limiti del pianeta (2012)
“Alcune vite sono prudentemente protette e ogni attacco alla loro intangibilità è sufficiente a mobilitare interi apparati militari. Altre vite non trovano un sostegno così immediato e solerte perché fondamentalmente non sono considerate ‘degne di lutto’. […] A livello discorsivo alcune vite non sono considerate affatto tali, non possono essere umanizzate, non si adattano a nessuna definizione corrente di umano, la loro disumanizzazione, pertanto, avviene in primo luogo a questo livello, e in seno a essa si origina una violenza fisica che, in un certo senso, veicola un messaggio di disumanizzazione che è però già in atto sul piano culturale”.
Judith Butler, Fare e disfare il genere (2004)
“Allo stesso modo in cui, a fronte della contemporanea ‘fragilità dei diritti’, è possibile rivendicare un rinnovamento concettuale dei diritti stessi che implichi maggiore democrazia rispetto alla loro definizione, alla possibilità reale di accedervi e alla loro tutela, anche della cittadinanza si potrebbe forse avviare una ridefinizione sostanziale, muovendo dalla migliore delle sue funzioni e dal più virtuoso dei suoi aspetti: la valorizzazione degli esseri umani in quanto esseri sociali inseriti in un contesto di interdipendenze con l’ambiente in cui vivono”.
Alessandra Sciurba, Diritti confinati e atti preformativi (2012)
“Una visione nomade e non unitaria del soggetto, anziché impedire prese di posizione eticamente rilevanti, costituisce una precondizione necessaria per la formulazione di un’etica all’altezza delle complessità del nostro tempo”.
Rosi Braidotti, Trasposizioni. Sull’etica nomade (2006)
“Lo spostamento dell’attenzione dalle donne - intese come identità compiuta - ai soggetti - intesi come composizione “situata” di esperienze, saperi e poteri - scardina i confini, rovescia completamente la visione limitante e assolutistica della contrapposizione Sé/Altro-da-Sé, assume la migrazione come un movimento necessario e promuove una cultura delle relazioni umane più libera e più liberatoria”.
Letizia Lambertini, Donne in movimento. Una riflessione sul rapporto tra gender studies e migrazione (2013)
“Dobbiamo smettere di vedere l'immigrazione come un problema e cominciare a considerarlo semplicemente come un fatto della globalizzazione. Dobbiamo partire dal fatto che il mondo non sarà mai più culturalmente ed etnicamente omogeneo: quel mondo non esiste più. Poi dobbiamo pensare alle molteplici forme di appartenenza del soggetto e mappare le diverse configurazioni del nomadismo, i diversi modi in cui un soggetto può avere differenti forme di appartenenza […]. Un modello di teoria nomade post-coloniale permetterebbe di decriminalizzare, depenalizzare e depatologizzare il problema. […] Dobbiamo tracciare cartografie alternative delle nostre soggettività non-unitarie, così da poterci liberare dell'idea che possano esistere soggetti completamente unitari, che appartengono a un solo luogo. […] Penso che il primo passo sia eliminare le identità. Non arriveremo da nessuna parte prendendo l'identità come punto di partenza. Anzi, l'intero processo del divenire significa abbandonare l'identità e costruire la soggettività, che è per definizione trasversale, collettiva”.
Rosi Braidotti, Conversazione sul nomadismo (2010)
“Il senso della (propria) autobiografia è nella connettività, nella possibilità di implementare molteplici appartenenze, rinunciando a concepirsi come centro a favore della visione del sé come punto di interferenze, processi, passaggi, mobilità, definito dalla pratica della relazione e dalla politica del posizionamento. L’ideologia del medesimo, del centro, della presenza stabile e indiscussa del sé viene superata esattamente nella pratica autobiografica in cui l’occasione di riflessione su di sé risulta inseparabile da un atto di proiezione dal sé, nell’incontro con l’estraneità che conduce oltre il monologo tra l’io e l’io, in una dimensione più fragile, mobile e indefinita. L’espressione e il racconto di sé, dunque, e l’estetica incarnata e carnale dell’arte femminile possono essere intesi come il luogo dell’intersezione tra una border art e un border thinking, una pratica e una teoria del sé che inevitabilmente ne discute e riposiziona i confini geografici, storici, sociali, di genere, evidenziando in questo movimento tra culture e identità, la possibilità di creare coalizioni, alleanze, rapporti relazionali in grado di scalzare la definizioni egemoniche e centralistiche della comunità, del senso comune, dell’essere e del vivere in comune”.
Celeste Ianniciello, La teoria femminista: il sapere situato e il corpo ignorato (2017)
“L’umanesimo planetario esprime una ricomposizione sociale e anche simbolica della propria relazione con lo spazio, il tempo e la comunità. Trasforma l’ibridazione in una nozione eco-filosofica. La sfida non è tanto quella di un ritorno alle identità fisse, ai confini netti e a un passato di presunta purezza, quanto piuttosto quella di cogliere l’opportunità offerta dalla mescolanza culturale già disponibile nei nostri stessi passaggi di ethos e gender postindustriali: in tal modo si possono creare delle possibilità ancora sconosciute per costruire legami e collettività”.
Rosi Braidotti, Trasposizioni. Sull’etica nomade (2006)
“La natura non è un luogo fisico in cui recarsi, non è un tesoro da custodire o conservare in banca, non è un'essenza da proteggere. La natura non è un testo da decifrarsi in base ai codici della matematica o della biomedicina. Non è l'alterità che offre origine, materie prime e servizi. Né madre né curatrice, né schiava né matrice, la natura non è risorsa o mezzo per la riproduzione dell'uomo. La natura è, strettamente, un luogo comune”.
Donna Haraway, Le promesse dei mostri (2019)
“Che ci piaccia o no, siamo coinvolti nel gioco della matassa che consiste nella cura dei mondeggiamenti precari resi ancora più precari dall’uomo che brucia i fossili creando altri fossili a tutta velocità, nelle orge dell’Antropocene e del Capitalocene. C’è bisogno di una varietà di giocatori umani e non-umani in ogni singola fibra del tessuto che compone questa storia tanto necessaria che è lo Chthulucene. Qui i ruoli principali non sono riservati agli stessi giocatori che spadroneggiano nelle storie del Capitalismo e dell’Antropos, storie troppo grandi che invitano a sporadici attacchi di panico apocalittico e a denunce ancora più sporadiche e tra loro scollegate anziché a pratiche attente di pensiero, amore, rabbia e cura. […] O la prosperità verrà coltivata come una responso-abilità multispecie senza l’arroganza degli dei celesti e dei loro emissari, o la Terra biodiversa scivolerà in qualcosa di estremamente vischioso, come qualunque sistema adattativo complesso sovraccarico che non ha più forza di incassare un insulto dopo l’altro”.
Donna Haraway, Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto (2016)
Razza
“La razzializzazione è un processo dialettico in base al quale è attribuito un significato a una particolare caratteristica biologica degli esseri umani. In seguito a questo processo, gli individui possono essere assegnati a una categoria generale di persone che si riproduce biologicamente. Il processo di razzializzazione degli esseri umani comporta la razzializzazione dei processi a cui partecipano e delle strutture e istituzioni che ne risultano”.
Robert Miles, Racism (1989)
“La razza, una cosa che esiste e non esiste allo stesso tempo, è l’elemento che più ha definito la mia esistenza. Io sono la mia pelle, i miei capelli, il mio nome, sono le tradizioni dei miei genitori. Ho sfregato via quanto di me era possibile, eppure la razza è rimasta con me – nel mio passaporto che sembrava non superare mai i controlli d’ingresso in aeroporto, nelle ispezioni ‘casuali’ oltre le casse automatiche dei supermercati, nel tu dell’impiegato di banca che ritornava al lei col cliente successivo. Ogni volta grattavo via qualcos’altro: avevo smesso di parlare nella mia prima lingua, le mie buone maniere a tavola erano impeccabilmente occidentali, non mangiavo nulla con le mani, nemmeno la pizza, il mio nome era stato piegato alla facilità di pronuncia di qualcun altro, leggevo libri su bambini bianchi e guardavo film con bambini ancora più bianchi. Ero – sono – la perfetta pubblicità per un programma di assimilazione culturale. Ero – sono – ciò che gli inglesi, in maniera razzista, chiamano coconut, una noce di cocco, nera fuori, bianca dentro. Ma la razza continuava a perseguitarmi, ed era questo, ancor più del concetto in sé, a definirmi”.
Nadeesha Uyangoda, L’unica persona nera nella stanza (2021)
“Il concetto di razza, prima ancora di essere un’invenzione pseudoscientifica, biologica, se vogliamo, è stato un mezzo ideato dal capitalismo coloniale per sfruttare masse di uomini e donne non-bianchi”.
Nadeesha Uyangoda, L’unica persona nera nella stanza (2021)
“È una colonialità che ha ereditato la divisione del mondo che l’Europa a tracciato nel XVI secolo e che non ha mai smesso di riaffermare usando la spada, la penna, la fede, la frusta, la tortura, la minaccia, la legge, la scrittura, la pittura e poi la fotografia e il cinema. È una colonialità che istituisce una politica di vita usa e getta, humans as waste”.
Françoise Vergès, Un femminismo decoloniale (2019)
“Sì, la civiltà europea e i suoi rappresentanti sono responsabili del razzismo coloniale”.
Frantz Fanon, Pelle nera, maschere bianche. Il nero e l’altro (1952)
“Insisto ancora e sempre sulla centralità della schiavitù coloniale nella costruzione della vulnerabilità a una morte prematura, sulle nozioni normative e razziali della femminilità e della buona mascolinità, sull’invenzione di ciò che costituisce la ‘buona’ famiglia, le buone maternità e paternità, sulla costruzione dell’infanzia, sull’economia della consumazione dei corpi e delle ricchezze. Se le zone di precarizzazione si moltiplicano, le divisioni Nord/Sud, centro/periferia permangono, ma all’interno di una globalizzazione delle condizioni di vita degradate”.
Françoise Vergès, Una teoria femminista della violenza. Per una politica antirazzista della protezione (2020)
“Si abbia il coraggio di dirlo: è il razzista che crea l’inferiorizzato”.
Frantz Fanon, Pelle nera, maschere bianche. Il nero e l’altro (1952)
“La razza è la figlia del razzismo, non la madre”.
Ta-Nehisi Coates, Tra me e il mondo (2015)
“È questo il grande rimprovero che rivolgo allo pseudo-umanesimo, e cioè di aver, per troppo tempo, sminuito i diritti dell’uomo e di averne avuto, e di averne ancora, una concezione ristretta e limitante, parziale ed esclusiva e, tutto sommato, odiosamente razzista”.
Aimé Césaire, Discorso sul colonialismo (1950)
“In altre parole il Nero non deve più essere posto davanti a questo dilemma: o diventar bianco o sparire, ma deve poter prendere coscienza di una possibilità d’esistere. In altre parole ancora, se la società gli crea delle difficoltà a causa del suo colore, se io riscontro nei suoi sogni l’espressione di un desiderio inconscio di cambiare colore, il mio scopo non sarà quello di dissuaderlo consigliandolo di ‘mantenere le distanze’; il mio scopo sarà anzi, una volta che avrò chiarito i motivi, di metterlo in grado di scegliere l’azione (o la passività) nei confronti della vera origine del conflitto, cioè nei confronti delle strutture sociali”.
Frantz Fanon, Pelle nera, maschere bianche. Il nero e l’altro (1952)
“I femminismi di politica decoloniale si inscrivono nel lungo movimento di riappropriazione scientifica e filosofica che rilegge la narrazione europea del mondo. Contestano l’economia-ideologia della mancanza, quella ideologia occidentale-patriarcale che ha fatto delle donne, delle/i nere/i, dei popoli autoctoni, dei popoli dell’Asia e dell’Africa, degli esseri inferiori caratterizzati dall’assenza di ragione, di bellezza o di uno spirito naturalmente atto alla scoperta scientifica e tecnica”.
Françoise Vergès, Un femminismo decoloniale (2019)
“Pensiamo che le razze bianca e nera, messe in presenza l’una dell’altra, provocano l’organizzarsi di un complesso psicoesistenziale. E analizzando questo noi miriamo alla sua distruzione”.
Frantz Fanon, Pelle nera, maschere bianche. Il nero e l’altro (1952)
“Osare immaginare significa rifiutare l’opposizione tra passato, presente e futuro del tempo occidentale, che non è né quello delle comunità, né quello dei popoli non occidentali, né quello delle lotte: hanno la virtù di riparare un passato intessuto dai massacri, dalle distruzioni e dai crimini; di riparare un presente dove massacri, distruzioni e crimini sono gli elementi organizzativi dei governi; di riparare un futuro in cui gli effetti della violenza passata e presente sono quelle di un femminismo decoloniale antirazzista”.
Françoise Vergès, Una teoria femminista della violenza. Per una politica antirazzista della protezione (2020)
“Dove voglio arrivare? A questa idea: nessuna colonizzazione è innocente, nessuna colonizzazione agisce impunemente; ogni nazione colonialista, ogni civiltà che giustifica la colonizzazione – e dunque l’uso della forza – è da ritenersi una civiltà malata, una civiltà moralmente compromessa che, di conseguenza, continuando a rinnegarsi, richiama il suo Hitler, voglio dire il proprio castigo”.
Aimé Césaire, Discorso sul colonialismo (1950)
“Una società che vive nella negazione o, addirittura, nella celebrazione della storia coloniale non permette che siano creati nuovi linguaggi”.
Grada Kilomba, Memorie della piantagione. Episodi di razzismo quotidiano (2016)
“Se non si dà nome a una realtà, nemmeno si penserà a dei miglioramenti per una realtà che resta invisibile”.
Djamila Ribeiro, Il luogo della parola (2017)
“Il nanorazzismo è il razzismo fatto cultura e respiro, nella sua banalità e nella sua capacità d’infiltrarsi nei pori e nelle vene della società, nell’ora del lavaggio generalizzato del cervello, della decerebrazione meccanica e dell’ammaliamento di massa”.
Achille Mbembe, Nanorazzismo. Il corpo notturno della democrazia (2016)
“L’identità, a differenza di quanto noi pensiamo, non è così trasparente e aproblematica. Forse, invece di pensare l’identità come un fatto già compiuto, rappresentato dalle pratiche culturali emergenti, dovremmo pensarla come ‘produzione’, cioè come un processo sempre in atto, mai esauribile, e costituito sempre all’interno, e non all’esterno, delle rappresentazioni”.
Stuart Hall, Il soggetto e la differenza. Per un'archeologia degli studi culturali e postcoloniali (1989)
“Come alternativa alla metafisica della ‘razza’, della nazione e della cultura territoriale delimitata, tutte codificate nel corpo, la diaspora è un concetto che disturba attivamente la meccanica storica e culturale dell’appartenenza. Una volta spezzata la semplice sequenza dei legami esplicativi tra posto, luogo e coscienza, si può anche mettere in crisi il potere fondamentale del territorio nel delimitare l’identità”.
Paul Gilory, The Black Atlantic. L'identità nera tra modernità e doppia coscienza (1993)
“Tutte queste storie hanno fatto di me quella che sono. Ma insistere solo sulle storie negative significherebbe appiattire la mia esperienza, trascurando le molte altre storie che mi hanno formato. L’unica storia crea stereotipi. E il problema degli stereotipi non è che sono falsi, ma che sono incompleti. Trasformano una storia in un’unica storia. […] La conseguenza di un’unica storia è questa: sottrae alle persone la propria dignità. Rende difficile il riconoscimento della nostra pari umanità. Mette l’accento sulle nostre diversità piuttosto che sulle nostre somiglianze”.
Chimamanda Ngozi Adichie, Il pericolo di un’unica storia (2009)
“Che significa essere italiano per me… Una domanda che batteva come un viandante sconosciuto alla porta di casa: io ho provato a scriverla una risposta. Essere italiano per me… Una risposta, poche righe, qualche secondo per digitare sulla tastiera. Ma non mi veniva in mente niente. Non avevo una risposta. Ne avevo cento. Sono italiana, ma anche no. Sono somala, ma anche no. Un crocevia. Uno svincolo. Un casino. Un mal di testa. Ero un animale in trappola. Un essere condannato all’angoscia perenne. Essere italiano per me… Poi mi sono ricordata di un racconto di Karen Blixen. Lo avevo letto da adolescente in biblioteca. Mi aveva colpito il titolo Il primo racconto del Cardinale. Ricordo che una signora chiedeva al Cardinale: ‘Ma tu chi sei?’, e a questa domanda ‘Chi sei?’ il Cardinale ribatteva: ‘Risponderò con una regola classica: racconterò una storia’. Era questa la chiave. Era inutile cercare di riempire i punti di sospensione delle definizioni. Era una battaglia persa in partenza. Quei puntini ci avrebbero perseguitato per tutta la vita. Era meglio fare come il Cardinale: provare a raccontare il percorso che si era fatto fino a quel momento; e forse i percorsi di chi sentiamo veramente vicini”.
Igiaba Scego, La mia casa è dove sono (2013)
“A volte ci vengono date solo due scelte. Ho letto un articolo tempo fa, risaliva al Daily Times di El Paso del 1884, riportava la storia di un bianco che lavorava alla ferrovia ed era stato processato per l’assassinio di un anonimo signore cinese. Il caso alla fine era stato dichiarato infondato. Il giudice, tale Roy Bean, lo aveva fatto sostenendo che la legge texana proibiva sì l’omicidio di esseri umani, ma potevano essere considerati tali solo i bianchi, gli afroamericani o i messicani. Il corpo giallo anonimo non era stato considerato umano perché non rientrava in uno spazio su un pezzo di carta. A volte vieni cancellato prima che ti sia data la possibilità di dichiarare chi sei. Essere o non essere. Questo è il dilemma”.
Ocean Vuong, Brevemente risplendiamo sulla terra (2019)
“Il razzismo è anche strutturale e sociale, è oppressione di classe, sono le leggi che non permettono di condurre una vita serena perché è difficile ottenere i documenti, e non averli costringe alla precarietà e allo sfruttamento. Il razzismo è non potersi mimetizzare tra la folla – bianca – perché sai già che il colore della pelle può essere elemento di accusa. Il razzismo è una questione culturale e storica, un passato coloniale rimosso con cui nessuno, o quasi, vuole davvero fare i conti. Il razzismo è continuare a vedere l’Africa come un posto in cui uno Stato vale l’altro, dove le persone attendono la benevolenza di qualche ‘salvatore bianco’, o il metro di giudizio utilizzato per sentirsi migliori. Il razzismo è non essere considerati italiani perché il colore della pelle ti tradisce – troppo scura per essere italiana”.
Oiza Queens Day Obasuyi, Corpi estranei (2020)
“Gli italiani sono bianchi? Questo il titolo di una famosa raccolta di saggi a cura di Jennifer Guglielmo e Salvatore Salerno. Naturalmente la risposta è no. Gli italiani non sono bianchi. Oserei dire, per fortuna. Gli italiani sono in mezzo. Sono mediterranei. Sono creoli. Un ponte ideale tra Europa e Africa. Ma l’Italia ha sempre rifiutato questo ruolo a causa di quella paura immensa di finire in una serie B chiamata ‘sud globale’”.
Igiaba Scego, Africana (2021)
“Non si può capire il razzismo globale (incluso quello negli Stati Uniti) senza affrontare le storie del colonialismo, del capitalismo, e del razzismo emerse prima in Europa. E anche se il Mediterraneo Nero fu, come scriveva Cedric Robinson, una precondizione per l’Atlantico Nero, oggi è anche all’avanguardia nelle lotte internazionali contro la violenza e l’esclusione razzista. Le lotte dei giovani afroitaliani oggi si intrecciano con questioni di immigrazione, frontiere e colonialismo”.
Camilla Hawthorne, Future. Il domani raccontato dalle voci di oggi (2019)
“Siamo donne e non è facile essere donne in un paese come l’Italia, intriso di sessismo. E siamo afro, quindi facciamo parte di una categoria di persone che sono state perse di mira nel tempo da un razzismo che affonda le radici nel colonialismo sia fascista sia precedente. Tanti stereotipi e tante categorie inferiorizzanti usati contro di noi provengono da quel passato che non passa e che ancora la società sta rimuovendo se non addirittura rivendicando. Il mito degli italiani brava gente aleggia ancora come uno spettro su una nazione che si autoassolve sempre dai crimini efferati che commette”.
Igiaba Scego, Future. Il domani raccontato dalle voci di oggi (2019)
“Il percorso di vita di queste donne – soprattutto delle donne nere e meticce che costituiscono la maggioranza – è animato da un istinto di sopravvivenza, sia per loro che per le proprie famiglie. Costruiscono reti di solidarietà incentrate sul tenersi in vita e rafforzare la dignità. Mentre subiscono le peggiori conseguenze dell’ineguale assetto sociale del paese, sono proprio loro che producono i mezzi per trasformarlo, ampliando la mobilità in tutte le sue dimensioni. In questo senso, sono loro a essere più chiaramente penalizzate nel contesto attuale, ma allo stesso tempo, sono solidamente posizionate per resistere”.
Marielle Franco, Laboratorio Favela. Violenza e politica a Rio de Janeiro (2014)
“Questo accade nel preciso momento storico in cui in Europa occidentale si assiste allo stesso tempo alla privatizzazione del welfare e a un forte incremento dell’età della popolazione. Piuttosto che essere indicate come ‘ladre di lavoro’, ‘minacce culturali e sociali’ e ‘parassiti del welfare’ – tutte accuse rivolte di solito agli uomini musulmani e non occidentali – le donne migranti sembrano essere quelle che permettono agli uomini e in particolare alle donne europee di lavorare nella sfera pubblica, garantendo quel lavoro di cura che le ristrutturazioni neoliberiste hanno mercificato”.
Farris Sara Rita, Femonazionalismo. Il razzismo nel nome delle donne (2017)
Femminismo transnazionale
“La critica e la resistenza al capitalismo globale, lo svelamento della naturalizzazione dei suoi valori maschilisti e razzisti, sono all’origine della costruzione di una pratica femminista transnazionale. Questa pratica dipende dalla capacità di costruire solidarietà femministe che siano trasversali alle divisioni di luogo, identità, classe, lavoro, credo e così via. […] Le differenze e i confini di ognuna delle nostre identità si connettono gli uni agli altri più che dividerci. Il nostro progetto, qui, è infatti di forgiare, tra noi, solidarietà informate e auto-riflessive […] così che i confini non vengono mai realmente fissati”.
Chandra Talpade Mohanty, Femminismo senza frontiere (2012)
“L’umano in quanto humus ha tantissimo potenziale: se solo potessimo sbriciolare e sfilacciare l’umano in quanto Homo, questa fantasia malata di un amministratore delegato perennemente intento a autorealizzarsi e a distruggere il pianeta! Immaginate una conferenza non sul Futuro dell’Umanità nell’Università del Capitale Ristrutturato, ma sul Potere delle Humusità per la Confusione Multispecie Sostenibile! […]La terra dello Chthulucene in divenire è simpoietica, non autopoietica. I Mondi Mortali […] non si creano da soli. […] I sistemi autopoietici non sono chiusi, sferici deterministici o teleologici. […] La poiesi è sempre sinctonica, simpoietica, sempre abbinata ad altro, senza ‘unità’ di partenza che interagiscono di conseguenza”.
Donna Haraway, Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto (2016)
“La posizione del soggetto diasporico non è solamente negativa ma è anche produttrice di processi di significazione culturale a due direzioni, soprattutto in termini di anti-nazionalismo. […] L’obiettivo della soggettività nomade è quello di identificare una linea di fuga, in altre parole uno spazio del divenire creativo e alternativo che non stia tra mobile/immobile, residente/straniero ma all’interno stesso di queste categorie. Non si tratta né di svalorizzare né di esaltare la condizione degli altri marginali o stranieri bensì di trovare una collocazione più esatta e più complessa per una trasformazione dei termini di questa interazione politica”.
Rosi Braidotti, Trasposizioni. Sull’etica nomade (2006)
“La realizzazione di un’alleanza transnazionale tra donne va di pari passo con l’elaborazione di una epistemologia nuova e con la presa di distanza dai discorsi egemonici e coloniali del ‘Primo mondo’ che, consapevolmente o inconsapevolmente, portano all’oppressione e allo sfruttamento di molte”.
Elisabetta Pesole, Femminismo transnazionale (2012)
“Da questa impollinazione-incrociata razziale, ideologica, culturale e biologica, si sta sviluppando una consapevolezza ‘aliena’ - una nuova consapevolezza meticcia, una consapevolezza femminile. È una consapevolezza dei confini Borderlands”.
Gloria Anzaldúa, Terre di confine – La frontera (2000)
“Il termine ‘transnazionale’ designa una specifica modalità di creare alleanze, a livello mondiale, tra soggetti che occupano posizioni di potere asimmetriche a seconda della propria appartenenza di genere, ‘razziale’, etnica, di classe, del proprio orientamento sessuale, della propria età, ecc. L’uso di questo termine presuppone un posizionamento critico riguardo ai termini ‘universale’ o ‘globale’, ritenuti espressione di un impianto teorico modernista e coloniale”.
Elisabetta Pesole, Femminismo transnazionale (2012)
“La necessità di mantenere aperta la nozione dell’umano a una futura articolazione è fondamentale per il progetto internazionale di una politica critica e di un linguaggio dei diritti umani. Spesso ci troviamo a fare i conti con una nozione di ‘umano’ data per scontata – in cui ciò che è umano viene definito a priori secondo termini chiaramente occidentali, molto spesso americani e, pertanto parziali e provinciali. Il paradosso che ne risulta è che l’ ‘umano’ in questione, per quanto concerne i diritti umani, è già conosciuto, già definito, e tuttavia si presuppone che rappresenti il fondamento di un insieme di diritti e di doveri internazionali. Il modo in cui ci si sposta dal locale al globale è uno dei punti fondamentali della politica internazionale – e dunque anche del femminismo internazionale. Una concezione anti-imperialista, o almeno non imperialista, dei diritti umani deve mettere in discussione che cosa si intenda per umano e acquisire conoscenze sulle diverse modalità e i diversi mezzi attraverso i quali esso viene definito nelle diverse sedi culturali. Ciò significa che è necessario sottoporre a reinterpretazione ogni concezione limitata di ciò che l’umano rappresenta o, di fatto, delle condizioni e dei bisogni fondamentali dell’esistenza umana, dal momento che vi sono circostanze storiche e culturali in cui l’umano, i suoi bisogni primari e, di conseguenza, i suoi diritti primari vengono definiti in modo differenziato”.
Judith Butler, Fare e disfare il genere (2004)
“Nonostante il femminismo transnazionale nasca da una critica ai presupposti universalistici dell’idea modernista di sorellanza universale, esso non mette in discussione né la necessità né la possibilità di creare tale alleanza. Ciò che il femminismo transnazionale mette in discussione dell’idea modernista di sorellanza universale è che una simile alleanza tra donne di luoghi diversi sia immediata e ‘naturale’, sulla base di una presunta comunanza di esperienze in quanto donne”.
Elisabetta Pesole, Femminismo transnazionale (2012)
Relativismo o pluralismo?
“Si può abbracciare l’ideologia universalista in modo così radicale da ritenere che i ‘nostri principi e valori universali’ siano da esportare e imporre con la forza a società e culture altre, intese come monadi immutabili, separate, sottratte alla storia, irriducibilmente differenti dalla nostra: un’illustrazione perfetta di questa tendenza è il teorema dello ‘scontro di civiltà’ di Samuel Huntington”.
Annamaria Rivera, Relativismo culturale. Contro etnocentrismo e universalismo particolare (2012)
“Durante il periodo coloniale alcune femministe europee presero parte attiva alla missione civilizzatrice con l’obiettivo di ‘emancipare’ le donne colonizzate dalle loro pratiche in apparenza arretrate. Il loro coinvolgimento in queste pratiche civilizzatrici è dovuto a due elementi: da una parte le suffragette europee condividevano in larga misura alcuni dei preconcetti più razzisti e sessisti delle culture non europee come primitive e patriarcali; dall’altra queste femministe speravano di trarre benefici dalle contraddizioni che l’utilizzo dell’uguaglianza di genere nelle colonie poteva aprire in patria, dove alle donne era ancora negato il diritto di voto”.
Sara Rita Farris, Femonazionalismo. Il razzismo nel nome delle donne (2019)
“Per andare oltre l’universalismo particolare e gerarchico si dovrebbe mantenere sempre viva l’attenzione performativa fra la comprensione del particolare-singolare-locale e la coscienza del non-realizzato dell’universale. Questo, a sua volta, è uno dei presupposti per una universalità intesa come un verbo, non come un sostantivo, come un processo reciproco non lineare e sempre aperto. Gli stessi diritti universali delle persone, per divenire operativi, efficaci, tendenzialmente validi per l’intera umanità, dovrebbero essere posti a confronto e calati nella concretezza degli idiomi locali: non per restare intrappolati nel particolare e dunque vanificati, ma per ricevere dal locale linfa ed effettività, contenuti e ridefinizioni”.
Annamaria Rivera, Relativismo culturale. Contro etnocentrismo e universalismo particolare (2012)
“Un rischio che accompagna la rivendicazione del riconoscimento di gruppi culturali è […] la cristallizzazione delle caratteristiche del gruppo. Tale pericolo di reificazione dei gruppi minoritari è testimoniato dall’emergere della definizione di ‘identità culturali’. Con ciò non si intende contestare la rivendicazione di politiche di riconoscimento e quindi di eventuale redistribuzione economica che possano sopperire ai gravi svantaggi patiti da specifiche minoranze, quanto le dinamiche comunitarie che questa rivendicazione di solito porta con sé: la costruzione della minoranza in un gruppo dotato di una specifica ‘identità culturale’ crea un intreccio di norme sociali collettive che minaccia di indebolire il posizionamento soggettivo delle singole e dei singoli appartenenti a quel gruppo; il richiamo a presunte (e stabilite da chi?) caratteristiche fisse di una ‘identità culturale’ mina alla base la possibilità di agire liberamente come soggetti sessuati, incarnati e contestualizzati in una serie di relazioni e in un intreccio tra la differenza sessuale e tutte le altre”.
Laura Ronchetti, Multiculturalismo. Diritti senza donne (2012)
“Il rispetto del pluralismo è dunque, secondo noi, totalmente diverso dal relativismo culturale o dalla deferenza verso la tradizione: esso richiede alla società di prendere posizione a favore di certi valori generali che garantiscono tutti i cittadini nelle loro scelte”.
Martha Nussbaum, Creare capacità (2011)
“Un orientamento ‘universalista’, in realtà etnocentrico nonché proibizionista, è riemerso in ambienti femministi, soprattutto francesi ma anche italiani, in occasione dell’affaire del ‘velo islamico’ in Francia e oggi del niqab (chiamato impropriamente burqa), ugualmente in Francia, ma anche in Italia e in altri paesi europei. Negli argomenti delle femministe proibizioniste si può intravedere l’idea del ‘fardello della donna bianca’, cioè della missione civilizzatrice che imporrebbe di emancipare, anche contro la loro volontà, le nuove indigene, reputate vittime passive di oppressione e non di meno meritevoli d’essere punite. L’idea implicita che ispira queste tendenze è che la liberazione delle donne s’identifichi con l’estensione e l’applicazione conseguente del modello liberale, che sarebbe insidiato dall’irruzione nelle nostre società della barbarie del mondo non-occidentale”.
Annamaria Rivera, Relativismo culturale. Contro etnocentrismo e universalismo particolare (2012)
“Sia le politiche che i discorsi pubblici sull’integrazione delle persone migranti sono declinati in termini di genere: sono gli uomini, non le donne, a creare problemi al processo di integrazione. Considerati come gli artefici e i guardiani di codici culturali che gli occidentali ritengono arretrati e misogini, gli uomini musulmani e non occidentali sono considerati il vero ostacolo all’‘integrazione sociale e culturale’, una minaccia per tutta la cultura occidentale. Anche quando è la donna musulmana a essere identificata come un pericolo culturale, perché rifiuta di togliersi l’hijab o il burqa e quindi di adattarsi alle norme sulla laicità, il suo agire è ricondotto alla costrizione subita dagli uomini e mai a una scelta personale”.
Sara Rita Farris, Femonazionalismo. Il razzismo nel nome delle donne (2019)
“Il sessismo esiste in tutte le parti del mondo, ed è vero che viene praticato anche da noi. È vero anche, però, che il sessismo da noi non è pubblicamente accettato e giustificato in quanto elemento culturale. Noi puniamo legalmente chi commette atti sessisti e non giustifichiamo gli uomini che li commettono dicendo ‘beh, sono fatti così’. Invece quando parliamo di sessismo in relazione ad altri mondi, in particolare al mondo arabo, riduciamo il tutto a una questione di accettazione della differenza culturale, secondo un ‘relativismo etico’ molto di moda”.
Lucia Annunziata, Colonia, Europa (2016)
“Integrazione non significa soltanto imparare una lingua, ma accettare le regole del paese che ti ospita e tra queste regole, in Europa, c’è quella di rispettare le donne. […] Se si ritiene che le abitudini culturali non si possano cambiare, si fa del razzismo. Significa pensare ‘tutti gli uomini sono così’, oppure ‘tutti i musulmani sono così’: no, siamo semplicemente di fronte a una cultura basata sul patriarcato, sulla proprietà dell’altro, in particolare della donna. Se la donna è accompagnata dal suo proprietario la si rispetta, se invece esce da sola è alla mercé di tutti”.
Dacia Maraini, Colonia, Europa (2016)
“La nozione di sessualizzazione del razzismo enfatizza che il razzismo è sessuato perché si basa su stereotipi diversi per uomini e donne costruiti come Altri – rispettivamente in quanto oppressori e minacce sessuali o in quanto vittime e oggetti/proprietà sessuali. Ma è anche sessualizzato in quanto l’immaginario razzista opera attraverso potenti metafore e desideri sessuali: le ideologie razziste esprimono cioè il desiderio di dominare l’Altro attraverso fantasie di possedere il suo corpo della donna razzializzata e di umiliare l’uomo razzializzato. La nozione di razzializzazione del sessismo invece evidenzia i modi in cui il razzismo opera raffigurando il sessismo e il patriarcato come domini esclusivi dell’Altro (non occidentale e musulmano). La stigmatizzazione razzista dell’Altro è quindi dedicata alla descrizione della cultura Altra come un inferno sessista per le donne: in questo modo si veicola la paura degli uomini stranieri che, qualora superassero il confine impor(te)rebbero in occidente pratiche sessiste e relazioni abominevoli”.
Sara Rita Farris, Femonazionalismo. Il razzismo nel nome delle donne (2019)
“L’integrazione è possibile per chi vuole appartenere al tuo stesso mondo. Peraltro anche il termine educazione è discutibile, perché il massimo dell’egocentrismo occidentale è proprio l’idea di poter ‘educare’ tutti, di poter ‘riscattare’ i ‘barbari’ del mondo con la propria superiorità valoriale. Una buona parte del mondo arabo (e bisogna vedere quando diventerà maggioritaria) coltiva oggi una piattaforma politica contro di noi e l’esprime in maniera organizzata […]. Queste persone non sono educabili perché hanno fatto un’altra scelta”.
Lucia Annunziata, Colonia, Europa (2016)
“Cercando di plasmarle come brave madri, o come l’incarnazione dell’immagine desiderabile della donna europea occidentale, alle migranti viene chiesto di rendersi detentrici della dimensione collettiva che le ‘ospita’ nonché riproduttrici culturali – se non immediatamente biologiche – della nazione europea occidentale. L’integrazione allora è allo stesso tempo un processo di denazionalizzazione e rinazionalizzazione, un modo di riorientare la lealtà delle immigrate non occidentali dalla nazione di provenienza verso la nazione occidentale di destinazione”.
Sara Rita Farris, Femonazionalismo. Il razzismo nel nome delle donne (2019)
“Da anni si insiste sulla multiculturalità e sul fatto che nessuno possa essere discriminato per le sue peculiarità. Si tratta di un errore fatale nella politica di educazione e integrazione degli ultimi anni. Invece di insistere e diffondere valori comuni europei, viene posto l’accento sulla comprensione e sulla tolleranza. […] Dobbiamo nominare la differenza culturale e dire chiaramente quel che è consentito e quel che è vietato.[…] Questo significa […] che la società europea deve sapere ciò che vuole. Uno Stato/una comunità definisce se stessa non garantendo la sicurezza dei propri confini, ma individuando e imponendo i limiti della convivenza sociale”.
Necla Kelek, Il rischio sharia nel cuore dell’Europa (2016)
“La lista delle ‘capacità umane centrali’ è una lista unica, molto generale. […] Tuttavia viviamo in un mondo altamente differenziato. Allora non è forse dittatoriale, addirittura ottuso, applicare un unico insieme di norme a tutte le popolazioni del mondo? […] Come gruppo internazionale di ricercatori, le cui origini coprono un ampio arco di culture sia occidentali sia non occidentali, siamo stati testimoni di un appassionato dibattito sul presunto imperialismo valoriale connesso all’universalismo, e ci siamo molto impegnati ad affrontare il problema. L’approccio delle capacità, sebbene strettamente legato all’approccio dei diritti umani, ha la sua origine in India, e la sua articolazione nel lavoro di un gruppo internazionale di ricercatori. […] L’approccio delle capacità sta con i piedi per terra. Non impiega alcun concetto teorico particolarmente rarefatto, accusa da alcuni rivolta all’idea dei ‘diritti umani.’ Al contrario esso si pone una domanda che le persone concrete pongono a se stesse e agli altri, in tanti differenti contesti, tutti i giorni della loro vita: che cosa sono in grado di fare e di essere? La lista [delle capacità] è esplicitamente pensata solo a fini politici, senza alcun collegamento con idee metafisiche che dividono le persone secondo linee di cultura e religione”.
Martha Nussbaum, Creare capacità (2011)
Intersezionalità
“Il termine ‘intersezionalità’ copre oggi, all’interno degli studi femministi, un doppio campo semantico. Da una parte esso indica il tentativo di mettere a tema la questione della posizione dei soggetti all’interno dei sistemi di potere e di dominio in quanto continuamente definita e ridefinita da molteplici assi di differenziazione: di sesso, razza, classe, identità, scelta o orientamento sessuale, religione, età… Contemporaneamente con questo termine ci si riferisce anche ad uno specifico approccio teorico nato dal tentativo di superare i limiti di un’analisi centrata sull’asse prioritario della differenza di genere in cui il sessismo viene considerato come isolato e/o disgiunto da altri rapporti di dominio (razzismo, classismo, etero sessismo)”.
Vincenza Perilli e Liliana Ellena, Interesazionalità. La difficile articolazione (2012)
“Anche se il termine ‘intersezionalità’ è stato coniato alla fine degli anni Ottanta, il tema è già presente nelle pratiche di lotta degli anni Sessanta e Settanta. E non per caso esso nasce nel femminismo statunitense da intellettuali africane americane o provenienti da aree del mondo che hanno conosciuto il colonialismo e la dipendenza economica. All’idea dell’esistenza di un sesso con destini e interessi comuni esse obiettano che la vita quotidiana di un essere umano non è condizionata solo dal genere e spiegano quanto il colore, la condizione di immigrata o l’area di provenienza del mondo in cui si vive possano rendere diseguali e diverse due persone dello stesso sesso”.
Lidia Cirillo, L’emancipazione malata. Sguardi femministi sul lavoro che cambia (2010)
“Il genere appare dunque una categoria insufficiente per la comprensione di fenomeni così complessi: la teoria e il metodo intersezionale ci spiegano come si debbano prendere in considerazione anche le altre forme di esclusione sociale e di subordinazione basate su appartenenze di classe, etniche, culturali”.
Laura Corradi, Nel ventre di un’altra (2017)
“Lo straniero è dentro di noi. E quando fuggiamo e combattiamo lo straniero, lottiamo contro il nostro inconscio – questo ‘improprio’ del nostro possibile ‘proprio’ […]. Freud non parla degli stranieri: egli ci insegna a scoprire l’estraneità dentro di noi. E questo è forse il solo modo di non perseguitarla fuori […]. Succede in Freud il coraggio di dirci disintegrati, non per integrare gli stranieri […] bensì per accoglierli in quell’inquietante estraneità che è loro come nostra”.
Julia Kristeva, Stranieri a se stessi (1988)
“Se vogliamo portare le donne africane dalla periferia al centro della scena, dobbiamo innanzitutto capire a che punto stiamo sulla scala di potere, e mirare ai nostri problemi considerando quella distanza. Nonostante il fatto che le donne subiscono la stessa subordinazione per le stesse ragioni, in tutto il mondo, esse hanno raggiunto differenti livelli di potere. Le differenti costruzioni sociali posizionano le donne africane a uno stadio diverso, nella lotta per i loro diritti umani, da quello che le loro sorelle in occidente hanno raggiunto. Interventi affrettati e non informati possono risultare un arretramento nel processo di cambiamento in Africa, e spesso le donne africane percepiscono del razzismo nel modo in cui i loro problemi vengono dibattuti in occidente. Identificare le priorità e usare le esperienze delle donne in tutto il mondo costituiscono il cancello attraverso il quale passerà il nostro cambiamento”.
Asma Mohamed Abdel Halim, Attrezzi per la subordinazione (2005)
“Per quanto possiamo essere marginalizzate in quanto donne, a nostra volta marginalizziamo altri soggetti in quanto teoriche bianche e occidentali, perché la nostra esperienza è bianca in forma irriflessa e perché anche le nostre ‘culture di donne’ sono radicate in una tradizione occidentale”.
Adrienne Rich, Notes toward a Politics of Location (1985)
“Quale sarebbe la risposta più adeguata a quelle domande implicite circa l’identificazione forte di un individuo con un gruppo al di là delle frontiere connotate, quali genere, razza, classe, sessualità o nazionalità? La proposta non potrebbe in alcun caso costituire un’ennesima variazione sul tema: ‘Chiunque dovrebbe essere in grado di cogliere da sé le proprie identificazioni’. Forse chiunque dovrebbe farlo ma nessuno lo fa, e quasi nessuno riesce ad andare oltre un numero assai ridotto di identificazioni strettamente canalizzate”.
Eve Kosofsky Sedgwick, Nelle segrete stanze (1990)
“Nel caso delle persone che si sono messe in movimento per ragioni legate alla loro identità di genere o orientamento sessuale, spesso partire ha significato la speranza di guadagnare una ‘patria’, piuttosto che il timore di perderla. […] Mentre le migrazioni a base etnica o religiosa, a esempio, sono accompagnate da un senso di separazione e perdita nei confronti delle proprie origini, della propria terra e famiglia, che idealizza e rende ancora più coerente la propria subcultura di appartenenza durante l’esperienza della diaspora, nel caso delle persone queer l’aggregazione identitaria si guadagna al contrario nel luogo di arrivo e affrancandosi sia fisicamente che idealmente dalla propria provenienza sociale e familiare”.
Laura Schettini, Mossi dal desiderio. Tracce di mobilità queer nel corso del Novecento (2014)
“Libero dai legami con i suoi, lo straniero si sente ‘completamente libero’. L’assoluto di questa libertà si chiama però solitudine, come lo stato agravitazionale degli astronauti, distrugge i muscoli, le ossa, il sangue. Disponibile, liberato da tutto, lo straniero non ha nulla, non è nulla”.
Julia Kristeva, Stranieri a se stessi (1988)