LA CASA SUL FILO

suggerimenti per un percorso di educazione antiviolenta

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“Allo stesso modo in cui l’attore dipende per il suo ingresso in scena dal palcoscenico, dalla compagnia e dagli spettatori, così ogni essere vivente dipende da un mondo che appare quale luogo per la propria apparizione, dai suoi simili per recitare la sua parte con loro, dagli spettatori perché la sua esistenza sia ammessa e riconosciuta”.
Hannah Arendt, La vita della mente (1978)

 

“I corpi-nel-tempo sono entità vincolate a un contesto e incarnate, totalmente immerse in una rete di complesse interazioni, negoziazioni e trasformazioni con e attraverso altre entità. La soggettività è un processo che mira al flusso di interconnessioni e impatto reciproco”.
Rosi Braidotti, Trasposizioni. Sull’etica nomade (2006)

 

“La natura non è un luogo fisico in cui recarsi, non è un tesoro da custodire o conservare in banca, non è un’essenza da proteggere o violare. La natura non è nascosta e pertanto non necessita di essere svelata. La natura non è un testo da decifrarsi in base ai codici della matematica o della biomedicina. Non è l’alterità che offre origine, materie prime e servizi. Né madre, né curatrice, né schiava né matrice, la natura non è risorsa o mezzo per la riproduzione dell’uomo. E tuttavia la natura è un topos, un luogo, che nella sua accezione retorica indica uno spazio in cui si condensano temi condivisi: la natura è, strettamente, un luogo comune. […] La natura è anche un tropos, un tropo. È figura, costrutto, artefatto, movimento, dislocamento. La natura non può preesistere alla sua costruzione”.
Donna Haraway, Le promesse dei mostri (1992)

 

“Se l’azione come cominciamento corrisponde al fatto della nascita, se questa è la realizzazione della condizione umana della natalità, allora il discorso corrisponde al fatto della distinzione, ed è la realizzazione della condizione umana della pluralità, cioè del vivere come essere distinto e unico tra uguali. Azione e discorso sono così strettamente connessi perché l’atto primordiale e specificamente umano deve nello stesso tempo contenere la risposta alla domanda posta a ogni nuovo venuto: ‘Chi sei?’”.
Hannah Arendt, Vita activa (1958)

 

“La filosofia chiede infatti sempre che cos’è una supposta realtà universale (l’Uomo, l’essere, il soggetto, ecc.) e ignora invece la domanda fondamentale che gli esseri umani si rivolgono l’un l’altro: ‘Chi sei?’. Radicata nel mondo in quanto scena in cui, con la nascita, ognuno fa la sua prima apparizione, questa domanda riconosce che ogni essere umano è un essere unico perché, anche semplicemente esponendosi allo sguardo altrui, unico appare già dalla forma del corpo e dal suono della voce. L’esistenza è dunque esposizione reciproca su uno spazio condiviso dove ognuno, sin dalla nascita appare e, nel corso della vita, può mostrare attivamente chi è con atti e parole”.
Adriana Cavarero, Il pensiero femminista. Un approccio teoretico (1999)

 

“Il linguaggio è effetto dell’articolazione, e così i corpi. Gli articulata sono animali snodati […] l’assemblaggio è la loro condizione d’essere. La natura può essere afasica, mancare di linguaggio, nel senso umano; tuttavia essa è estremamente articolata. […] In un inglese ormai in disuso articolare significa raggiungere un accordo. […] Vuole dire riuscire a tenere le cose insieme, anche cose spaventose, rischiose e imprevedibili. Voglio vivere in un mondo articolato. Noi articoliamo dunque siamo. ‘Chi sono?’ è una domanda davvero limitata nella perfezione infinita dell’autocontemplazione del soggetto. […] La risposta al ‘Chi sono?’ è la (mai realizzabile) identità. Sempre in bilico, ancora ruota attorno al perno della legge del padre, della sacra immagine del medesimo. […] La vera domanda deve avere più virtù: ‘Chi siamo noi?’ Questa è una domanda intrinsecamente più aperta, sempre pronta per articolazioni impreviste, che generano frizioni: una domanda rivendicativa”.
Donna Haraway, Le promesse dei mostri (1992)

 

“Promuovere la mera tolleranza delle differenze tra donne è riformismo del più grossolano. È una negazione totale della funzione della differenza nelle nostre vite. La differenza non deve essere solo tollerata, ma vista come una riserva di quelle necessarie polarità tra le quali la nostra creatività può fare scintille come una dialettica. Solo allora la necessità dell’interdipendenza cessa di essere minacciosa. Solo all’interno di quella interdipendenza di forze differenti, riconosciute e uguali, il potere di cercare nuovi modi di essere nel mondo diventa generativo, e con esso il coraggio e il sostegno per agire senza modelli prestabiliti. Nell’interdipendenza di differenze reciproche (non-dominanti) si trova quella sicurezza che ci permette di calarci nel caos della conoscenza e ritornare con vere visioni del nostro futuro, e insieme a esse il potere di realizzare quei cambiamenti che a quel futuro possono dare vita. La differenza è quella connessione potente e allo stato puro nella quale si forgia il nostro potere personale”.
Audre Lorde, Gli strumenti del padrone non smantelleranno mai la casa del padrone (1979)

 

“L’autodeterminazione individuale è culturalmente e politicamente una conquista e una parola d’ordine della modernità. Essa implica in primo luogo la responsabilità. Nell’accezione filosofica e giuridica del soggetto moderno, la responsabilità significa l’attribuzione a sé delle conseguenze delle proprie scelte e azioni. […] L’autodeterminazione è una finzione necessaria. Ma, appunto una finzione al pari del soggetto moderno. Non si nasce e non si è mai privi di vincoli: ciò significa che le scelte che facciamo non sono mai ‘libere’ nel senso della ‘libertà’ attribuita a questo soggetto. Non si nasce e non si è mai privi di relazioni (le quali sono parte dei vincoli): ciò significa che le nostre azioni non hanno conseguenze solo per noi e che di ciò che pensano e fanno gli altri non possiamo non tener conto. Le nostre scelte dipendono da noi solo in parte, dunque, e spesso non sono trasparenti a noi stesse. E non solo perché la (nostra) razionalità è ‘limitata’, ossia non sappiamo sempre ciò che meglio per noi in una data circostanza, ma anche perché non è facile valutare se ciò che è meglio per noi lo sia anche per chi ci sta a cuore. E vi sono inoltre questioni più generali che intervengono nelle nostre scelte, questioni che hanno a che vedere non solo con che cosa sia meglio per noi e per i nostri cari, ma con cosa sia ‘giusto’ fare dal punto di vista della morale, intesa questa come il punto di vista dell’altro generalizzato”.
Tamar Pitch, Chi decide per me? (2012)

 

“La domanda violenta […] non chiede e non vuole sapere nulla di nuovo, ma vuole rafforzare ciò che già presume di conoscere, cancellare l’ignoto che lo minaccia e lo costringe e riconsiderare i presupposti del suo mondo, la loro contingenza, la loro plasmabilità. La domanda nonviolenta vive invece nell’ignoranza dell’Altro al cospetto dell’Altro, poiché mantenere il legame a cui quella domanda dà inizio è, in ultima analisi, più importante del conoscere in anticipo che cosa ci accomuni, come se già avessimo le risorse necessarie per conoscere cosa definisca l’umano e quale potrebbe essere la sua vita futura”.
Judith Butler, Fare e disfare il genere (2004)

 

“La differenza vera ci si manifesta allorché ci troviamo a riconoscere l’altro senza tuttavia comprenderlo. Altro perché differente da quanto abbiamo immaginato e astrattamente teorizzato. La relazione diventa consapevole nel riconoscimento della nostra ignoranza dell’altro e al tempo stesso dell’autorità della sua propria condizione. In tal senso essa comprende e sostiene una disparità, la quale, nella misura in cui è espressione di posizioni autentiche e non coatte, contrasta ogni pregiudiziale tentativo di compensazione. In questi termini, l’inizio che l’esperienza della relazione segna, non elimina arbitrariamente divergenze, contraddizioni e diversità. Né presume di inventare una pratica della solidarietà che acquieti compensatoriamente il disagio e la confusione, spesso anche la lacerazione e il conflitto, che da questo inizio provengono. Piuttosto essa fonda concretamente la possibilità dell’incontro e nel sostenerla ammette la contraddizione come sua essenza”.
Letizia Lambertini, Il confronto femminile maschile nell’educazione alla reciprocità (1999)

 

“Il sé esposto e relazionale è anche un narrabile, che manifesta il suo desiderio di senso affidandolo al racconto della propria storia. […] Mettere al centro della teoria femminista la domanda sul chi, significa infatti attaccare l’ordine fallologocentrico nei suoi stessi fondamenti logici. Tale ordine corrisponde a un linguaggio che si regge sulla questione del che cosa e, proprio per questo, produce inevitabilmente posizionamenti, norme, gerarchie”.
Adriana Cavarero, Il pensiero femminista. Un approccio teoretico (1999)

 

“Potrei tentare di raccontare la storia di ciò che sto provando, ma si tratterebbe di una storia nella quale l’‘Io’ che cerca di narrare la storia viene interrotto nel bel mezzo della narrazione. L’‘Io’, in quanto tale, viene chiamato in causa dalla sua relazione con l’altro, a cui si rivolte. Tale relazione con l’Altro non danneggia la mia storia, né mi costringe al silenzio, ma, inevitabilmente, scompagina la mia parola attraverso un’irruzione che mi destabilizza – che mi disfa. […] Siamo disfatti gli uni dagli altri. E se non lo siamo, ci stiamo perdendo qualcosa. […] Né il genere né la sessualità sono esattamente qualcosa che si possiede, ma rappresentano un modo di essere sposessati, modi di essere per l’altro, in virtù dell’altro”.
Judith Butler, Fare e disfare il genere (2004)

 

“Il fatto [afferma Eva Kittay] che noi tutti siamo comunque ‘figli di una madre’ e che viviamo in una trama di relazioni di dipendenza dovrebbe rappresentare l’immagine guida del pensiero politico. Una teoria di questo genere, basata sul concetto di cura, si discosterebbe molto probabilmente da ogni teoria liberale, poiché la tradizione liberale è profondamente volta a garantire la realizzazione degli obiettivi di indipendenza e di libertà dell’individuo”.
Martha Nussbaum, Giustizia sociale e dignità umana (2002)

 

“Dobbiamo ripartire da un universale concreto vero, cioè dalla relazione fra un uomo e una donna che, nella fedeltà alle loro differenze corporee e spirituali, sostengono l’ideale del loro proprio genere in un’alleanza con l’altro genere”.
Luce Irigaray, La democrazia comincia a due (1994)

 

“Il posto delle donne non è una sfera a parte o un modo di esistere separato, bensì una posizione all’interno dell’esistenza sociale in generale”.
Joan Kelly, Women, History and Theory (1984)

 

“‘Genere’ quale sostituto di ‘donne’ è usato anche per suggerire che l’informazione sulle donne è necessariamente anche informazione sugli uomini, che l’una implica lo studio dell’altra”.
Joan Scott, Il “genere”: un’utile categoria di analisi storica (1987)

 

“I corpi sessuati, nella loro duplice qualità di significati e di significanti, esprimono ed esigono la loro funzione. È una funzione che racconta una mancanza, una ricerca, una direzione. Ed è, per questo, soprattutto, una funzione desiderante. E se è vero che il desiderio, nella sua infallibilità, attrae sempre verso ciò che ci manca, verso la differenza, dunque, nel senso molto concreto di chi non siamo; questa funzione è, nella sua pienezza, una funzione generativa. Simbolica, ancor più che biologica. In grado di contrastare la ripetitività degli identici speculari, di sostenere un ordine non più soggiogato dalla dicotomia. Né l’ordine del padre, né l’ordine della madre, ma l’ordine della reciprocità”.
Letizia Lambertini, Corpi sessuali e corpi sessuati. Prove erotiche di comunicazione (2010)

 

“[È] in questo continuo e stretto passaggio dalla singolarità all’alterità che si dà la possibilità della trasformazione. Solo l’‘essere qui e ora’ spalanca l’orizzonte alla costruzione e all’esperienza di luoghi e spazi della relazione dove maschi e femmine possono s-mascherarsi, giocare alla pari”.
Associazione Nondasola, Cosa c’entra l’amore? Ragazzi, ragazze e la prevenzione della violenza sulle donne (2014)

 

“Uomini e donne sono chiamati a una relazione non ap-propriativa, che per questo salva il proprio di ciascuna/o. In questa ordinata e ordinante relazione, lo spazio del comune, il luogo dell’incontro non può essere umano, se non grazie a una ‘transustanzializzazione di corpi e di spiriti’  e dovrà essere localizzato in un’ineffabile e divina dimora. […] Gli umani si toccano con la parola e si toccano con la carne dei loro corpi. Ma una cosa non accompagna l’altra in armonia e la violenza dell’in-contro, e questo fronteggiamento che non conosce né pura intimità né pura esteriorità ce lo ricorda incessantemente, deve forse suggerire più che una semplice pratica non appropriativa dell’altro, una pratica de-propriativa di sé e dell’altra/o. Qualcosa che ragioni dell’im-proprio – dell’essere e del soggetto – che l’amore esperisce”.
Fabrizia Di Stefano, Il corpo senza qualità. Arcipelago queer (2010)

 

“La carezza è gesto-parola che oltrepassa l’orizzonte o la distanza dell’intimità con sé. È vero per chi è accarezzato, toccato, per chi è avvicinato... ma è vero anche per chi accarezza, per chi tocca e accetta di allontanarsi da sé per questo. Allora il gesto di chi accarezza non è cattura, possesso, sottomissione della libertà dell’altro affascinata da me nel suo corpo”.
Luce Irigaray, Essere due (1994)

 

“L’esperienza del piacere [...] favorisce quel processo di integrazione che abbiamo chiamato Io, processo che consente di sostenere l’intensità emotiva delle esperienze a livelli sempre più elevati man mano che aumenta la sua coesione. L’esperienza del piacere sessuale, per esempio, soprattutto del suo livello più intenso, l’orgasmo, è possibile soltanto se una persona ha un vissuto di identità stabile: è questa stabilità che le consente, almeno per alcuni istanti, di abbandonarsi senza paura di disintegrarsi”.
Vezio Ruggieri e Anna Rita Ravenna, Transessualismo e identità di genere (1999)

 

La relazione tra donne

“’Tra donne’ è l’ulteriore tratto distintivo della pratica di pensiero [del partire da sé]. Indica lo spazio mentale, psichico e fisico che apre il sé alla relazione”.
Maria Luisa Boccia, La differenza politica (2002)

 

“Per le donne, il bisogno e il desiderio di prendersi cura l’una dell’altra non è patologico, bensì salvifico, ed è a partire da questa conoscenza che si scopre il nostro vero potere. È questo legame reale che il mondo patriarcale teme così tanto. Solo all’interno di una struttura patriarcale la maternità è l’unico potere sociale agibile alle donne. L’interdipendenza tra donne è la via verso una libertà che permette all’Io di essere, non allo scopo di venire usato, ma di essere creativo. Questa è la differenza tra l’essere passivo e l’esistere attivo”.
Audre Lorde, Gli strumenti del padrone non smantelleranno mai la casa del padrone (1979)

 

“Per poter valorizzare socialmente e simbolicamente il femminile è necessario un percorso, ancora agli inizi, che colleghi le donne nell’appartenenza al loro sesso attraverso l’inscrizione nella genealogia a loro propria, quella materna. Il senso di sé accresciuto, un’identità salda permettono alle donne di uscire dall’indistinto della confusione e dalla neutralità impoverente dell’emancipazione quando questa ha significato cancellazione della differenza sessuale”.
Anna Maria Piussi e Letizia Bianchi, Sapere di sapere. Donne in educazione (1995)

 

“La madre simbolica non funziona dunque né come modello di virtù femminile, né come paradigma obbligatorio di identificazione. Essa assurge piuttosto a principio costitutivo di una relazione fra donne che prevede una disparità e un debito. Invece che nel principio della sorellanza come garanzia di una indistinta uguaglianza, la relazione madre-figlia trova infatti la sua misura nella naturale verticalità del loro rapporto, riferito allo scambio fra riconoscimento di autorità e facoltà di linguaggio, fra debito e dono”.
Adriana Cavarero, Il pensiero femminista. Un approccio teoretico (1999)

 

“La sostanza della politica della differenza, è mettersi in relazione con un'altra donna per realizzare il proprio desiderio nel mondo e modificare l'ordine maschile esistente. Come sapete, ab­biamo chiamato questa relazione ‘affidamento’, per sotto­lineare il riconoscimento di autorità e il rapporto di fiducia con l'altra, che più di un uomo può aiutarmi nella realizza­zione dei miei desideri. Vale a dire una pratica della dispa­rità tra donne. Le donne erano e sono uguali nella discriminazione, nella miseria simbolica. Ma nel momento in cui ci sono desideri femminili e sapere, riflessioni, riconosciamo che le donne sono differenti tra loro. Inoltre, attraverso la pratica della disparità diciamo che la misura, la regola e la disciplina di queste differenze, non possono essere lasciate al mondo maschile [...], il rapporto di affidamento è anche un rapporto di scambio. L'affidamento è un rapporto in cui il desiderio parte da colei che si affida [...], il desiderio è della donna che si affida, non dell’affidataria. Cerchi chi può rafforzare il tuo deside­rio, quindi ti dirigi verso quella che ha una forza, un sapere”.
Lia Cigarini, La politica del desiderio (1995)

 

“L’affidarsi di una donna alla sua simile [...] noi lo abbiamo visto e pensato, primariamente, come forma di rapporto fra donne adulte. [...] Fin dai tempi più antichi sono esistite donne che hanno lavorato a stabilire rapporti sociali favorevoli a sé e alle proprie simili. E che la grandezza femminile si è nutrita spesso (forse sempre?) di pensiero e di energie circolanti fra donne. [...] Affidarsi non è uno specchiarsi pari pari nell’altra per confermarsi in quello che si è, ma chiederle e offrirle il mezzo di avere nel mondo esistenza vera e grande”.
Libreria delle donne di Milano, Non credere di avere dei diritti (1987)

 

“Nella nostra critica della famiglia noi facevamo lo sbaglio di non vedere che lo scambio familiare è perdente per la donna perché la donna si presenta allo scambio senza forza contrattuale: cerca nel marito ciò che non ha avuto nella famiglia di origine, cerca nei figli quello che non ha avuto dal marito. Non vedevamo che la questione non è tanto nell’istituto familiare in sé quanto il fatto che nel sistema degli scambi familiari le donne troppo spesso entrano disarmate.  […] Il discorso della genealogia ci insegna, in primo luogo, che una donna appartiene primariamente alla genealogia materna, è iscritta in una discendenza femminile di sangue e di parola, e solo secondariamente appartiene alla famiglia […]. La perdita di libertà e, a volte, anche di salute fisica e mentale, che le donne rischiano nella vita familiare, non è dunque un effetto diretto della famiglia come tale, ma del fatto che le donne vi entrano senza appartenere a nessuna genealogia. Ossia senza la forza, il sapere, la riserva mentale, la distanza, lo spazio di arretramento che ci permettono di vivere fino in fondo un rapporto con l’altro senza perdere la testa”.
Luisa Muraro, La Demetra della Bovisa (2000)

 

Famiglie

“Un momento cruciale nella coscienza umana […] è quello in cui l’uomo scopre di essere lui e non la luna, o le piogge di primavera, o lo spirito dei morti, a ingravidare la donna; che il figlio che lei porta in grembo e che dà alla luce è suo figlio, che può renderlo immortale, sia da un punto di vista mistico, sia concretamente, ereditando il suo patrimonio. Da questo insieme di possesso sessuale, patrimoniale, e dal desiderio di trascendere la morte nasce l’istituzione così come noi la conosciamo: l’attuale famiglia patriarcale con la sua mistica del pene, la divisione del lavoro secondo il sesso, la possessività emotiva, fisica e materiale, il suo ideale del matrimonio monogamo sino alla morte (e le gravi punizioni per l’adulterio femminile), l’‘illegittimità’ del bambino nato al di fuori del vincolo matrimoniale, la dipendenza economica della donna, i lavori domestici non pagati della moglie, la sottomissione di donne e bambini all’autorità maschile, la codificazione e la continuazione dei ruoli eterosessuali”.
Adrienne Rich, Nato di donna (1976)

 

“Sulla costa occidentale dell’Africa, i Fon del Dahomey hanno ancora dodici diversi tipi di matrimonio. In uno di questi, conosciuto come ‘dare la capra all’ariete’, una donna dotata di indipendenza economica sposa un’altra donna che potrà o meno avere dei figli, i quali apparterranno tutti alla stirpe della prima donna. Alcuni matrimoni di questo tipo sono organizzati per fornire eredi alle donne indipendenti che vogliono rimanere ‘libere’, e altri sono relazioni lesbiche”.
Audre Lorde, Graffiare la superficie: appunti sulle barriere tra le donne e l’amore (1978)

 

“Il femminismo ha spesso messo in luce come il legame di sangue non sia stato che una tra le varie forme di famiglie e intimità, e che solo con la cristianità e il capitalismo tale legame viene sancito soprattutto per ragioni di conservazione del potere e della ricchezza riproducendo un sistema patriarcale a scapito della libertà delle donne, dei giovani, dei vecchi e dei più poveri. Il legame di sangue sancito dal matrimonio borghese all’interno della stessa classe, o casta in altre culture, non rende di per sé una famiglia coesa o migliore di altre, né un genitore o un figlio più generoso, stabile e presente”.
Laura Fantone, Fare famiglie non-etero tra questioni di trasparenza e scambio di materiali riproduttivi (2014)

 

“Se intendiamo la parentela come un insieme di pratiche che istituiscono relazioni di varia natura preposte alla riproduzione della vita e alle necessità della morte, allora le pratiche di parentela avranno a che fare con le fondamentali forme umane di dipendenza, che includono la nascita, la crescita dei figli, le relazioni di dipendenza emotiva e di sostegno, i legami generazionali, la malattia, la fase terminale della vita, la morte (solo per nominarne alcune). La parentela non rappresenta né una dimensione totalmente autonoma, dichiaratamente distinta dalla società e dall’amicizia – o dalle regole statali -, da un fiat definitorio, né può essere considerata ‘finita’ o ‘defunta’ solo perché, come ha indirettamente sostenuto David Schneider, ha perso la capacità di essere formalizzata secondo i modi convenzionali adottati in passato dagli etnologi”.
Judith Butler, Fare e disfare il genere (2004)

 

“Il mio intento è far sì che il ‘kin’, la parentela, significhi qualcosa di diverso, qualcosa di più che entità legate dalla stirpe o dalla genealogia. […] All’università rimasi colpita dal gioco di parole tra kin e kind formulato da Shakespeare nell’Amleto: le persone più kind ovvero le persone più premurose non erano necessariamente i membri della famiglia. […] All’inizio la parola relatives (‘familiari’ in italiano) indicava delle ‘relazioni logiche’ e ha assunto il significato di ‘ membri della famiglia’ solo nel Seicento: questa ipotesi è tra le mie preferite in assoluto. Allargare e ridefinire la parentela è un processo legittimato dal fatto che tutte le creature della terra sono imparentate nel senso più profondo del termine e già da tempo avremmo dovuto a prenderci più cura delle creature affini come assemblaggi e non delle specie una alla volta. Kin è un genere di parola che unisce. Tutte le creature condividono la stessa ‘carne’ in maniera laterale, semiotica, genealogica”.
Donna Haraway, Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto (2016)

 

“L’estensione dell’intimità e delle responsabilità di cura oltre i confini della famiglia e oltre i codici emotivi da essa prodotti ha per me un significato ulteriore: le mie possibilità concrete di contestare la norma sociale che assegnerebbe a me e a mia sorella la responsabilità quasi esclusiva del benessere di nostra madre e a lei il ruolo dimesso e dipendente della vedova, sono infatti direttamente collegate alla disponibilità, da parte di reti sociali più allargate, di condividere questo lavoro di cura e di riconoscere un ruolo non di serie B a un’individua ‘non accoppiata’”.
Alessia Acquistapace, Decolonizzarsi dalla coppia. Una ricerca etnografica a partire dall’esperienza del Laboratorio Smaschieramenti (2014)

 

“Destabilizzare la falsa opposizione artificiale/naturale quando ci si riferisce alla famiglia, alla maternità, alla parentela, significa scalzare l’idea che avere e crescere un/a figlio/a sia sempre un dovere e un privilegio della coppia eterosessuale, soggetto unico eletto dai sistemi discorsivi e sociali a riprodurre la popolazione, le norme e i ruoli di generi pre-esistenti. Di fatto il processo di smantellamento del modello genitoriale eterosessuale, monogamo, consanguineo e mononucleare è già in atto come testimoniano i dati statistici sul matrimonio. […] Più del 25% dei minori vive in una famiglia diversa dal modello tradizionale. [Ne deriva] la necessità e la volontà di cercare soluzioni diverse dal modello tradizionale, non più in grado di rispondere alle esigenze e ai desideri contemporanei”.
Laura Fantone, Fare famiglie non-etero tra questioni di trasparenza e scambio di materiali riproduttivi (2014)

 

“Ci sono persone per le quali la non-monogamia è un punto fermo, qualcosa che caratterizza tutte le loro relazioni, comprese quelle più coinvolgenti e impegnate, e ci sono persone che legano la scelta di avere relazioni sessuali non esclusive a particolari circostanze (come a esempio il non vivere nella stessa città) o a bisogni contingenti, legati a specifici episodi o periodi della vita. Per alcuni/e la monogamia è conseguenza dell’essere ‘innamorati/e’, mentre per altri/e essa è legata soprattutto alla presenza di una relazione di coppia ‘vera e propria’, intendendo con ciò un’ampia condivisione di tempo, spazi e progetti; per altri/e ancora essa ha a che fare con la presenza di entrambe queste condizioni”.
Alessia Acquistapace, Decolonizzarsi dalla coppia. Una ricerca etnografica a partire dall’esperienza del Laboratorio Smaschieramenti (2014)