“La realtà è caratterizzata in primo luogo dallo ‘star ferma e permanere’ la stessa, tanto a lungo da diventare un oggetto per la conoscenza e il riconoscimento del soggetto”.
Hannah Arendt, La vita della mente (1978)
“Io non credo che possa esistere qualche processo di pensiero senza esperienze personali. Tutto il pensiero è meditazioni, pensare in seguito a una cosa”.
Hannah Arendt, La lingua materna (1964)
“Bisognerebbe distinguere il momento in cui si fa un’esperienza dal momento in cui questa diviene significativa”.
André Green, Le double et l’absent (1973)
“Se […] la narrazione di sé non è una semplice cronologia di esperienze, dovremmo allora chiederci ‘a chi appartiene il criterio di selezione di queste esperienze?’ e, ancora più radicalmente, ‘a partire dal magma inenarrabile della vita, cosa conta come esperienza?’. Se pensiamo alla narrazione personale e all’autorappresentazione come pratiche inserite in un contesto affollato da forze ideologiche e discorsive, è inevitabile concludere che la relazione privilegiata del soggetto con la verità dell’esperienza non è mai data per scontata e non può essere assunta come precedente il testo o come precondizione a esso”.
Elisa AG Arfini, La ricercatrice vulnerabile. Percorsi narrativi di co-costruzione di genere, sessualità e dis/abilità (2014)
“Il riprodursi storico del controllo come dominio ha operato nel senso di rimuovere noi uomini da ogni contatto corrente con la vita emotiva e somatica. L’abitudine a trattare il corpo come una macchina, acquisita con l’educazione, ha stabilito una netta divisione fra la sessualità maschile e l’emotività. Spesso è la paura di perdere il controllo a giustificare sia il carattere strumentale delle azioni degli uomini che la forza delle teorie che emarginano la vita emotiva”.
Victor Seidler, Riscoprire la mascolinità (1992)
“Occorre, quindi, saper mantenere uno sguardo strabico […] una volontà di continua oscillazione tra intimità, pensiero di sé e sguardo sul mondo e sulle persone. Operare uno sforzo, uno “scarto a lato” per allontanarsi dalle immagini del “femminile”, o del “maschile”, o del “neutro”, che in noi si sono impresse nel tempo, come eredità di innumerevoli generazioni”.
Barbara Mapelli, La riflessione sull’intimità (2001)
“Anche dire la verità richiede esercizio. Comincia là dove una donna è giunta: con la sua incertezza o chiarezza, l’amore e la rabbia, la frustrazione e l’orgoglio. Dire la verità è un modo di parlare per esperienza diretta – A me è accaduto questo – piuttosto che sulla base di opinioni altrui”.
Elizabeth Debold, Marie Wilson, Idelisse Malavé, Madri e figlie una rivoluzione. Dal conflitto all’alleanza (1994)
“Ero più che mai persuasa che spetta alla donna di rivendicare se stessa, ch’ella sola può rivelare l’essenza vera della propria psiche, composta, sì, d’amore e di maternità e di pietà, ma anche di dignità umana”.
Sibilla Aleramo, Una donna (1906)
“C’è stato un tempo in cui le donne sentivano muoversi qualcosa sotto il cuore. Quando questo accadeva, la donna sapeva di aspettare un bambino. Nessuna donna ha oggi lo stesso potere di definire la propria condizione attraverso un’affermazione circa il proprio corpo. Viviamo in una società nella quale si deve essere dichiarati malati, incinte, e perfino sani, da un documento scritto. La donna del 1720, a differenza di noi che siamo avvezze a esami delle urine, ospedali, centri di pianificazione familiare e ambulatori ginecologici, era abbandonata a se stessa e al proprio corpo. E tuttavia, l’esperienza del primo movimento del bambino, accessibile soltanto a lei, rivestiva un carattere decisivo di definizione del suo status. Nessuna donna che non affermasse di esserlo era considerata ‘incinta’. A quasi nessuna veniva attribuita questa condizione se non era lei stessa a comunicare di essere in attesa”.
Barbara Duden, Il corpo della donna come luogo pubblico. Sull’abuso del concetto di vita (1991)
“Il lessico platonico è [...] in grado di indicare agevolmente: il mondo [...] fatto di cose che ‘stanno dappresso’ (in basso) e il mondo del filosofo, fatto di ‘cose che sono’ (e stanno in alto e in profondità). Il nodo cruciale di questa distinzione consiste nel ritenere vero e reale l’ambito delle ‘cose che sono’, mentre l’ambito delle ‘cose che stanno dappresso’ è svalutato come mera apparenza superficiale, ossia come ciò che appartiene all’esperienza ingannevole dei sensi. Il risultato non è solo un dualismo - filosoficamente tenacissimo - , ma soprattutto un’inversione del senso di realtà, per cui il mondo della vita diventa la crosta fenomenica di una verità desensibilizzata accessibile al solo pensiero. Il termine realtà è, anzi, già un effetto della scissione dualistica: esso, in effetti, non ha un corrispondente in lingua greca, ma formandosi sul latino res, viene precisamente a coincidere con il greco ta onta, ossia l’essere delle ‘cose che sono’, appunto il nome che Platone dà alle idee”.
Adriana Cavarero, Nonostante Platone (1990)
“Esperienza è una parola assai frequente nel discorso femminista. […] Uso questo termine […] in senso lato, come un processo per mezzo del quale si costruisce la soggettività, per tutti gli esseri sociali. Mediante questo processo ci collochiamo o veniamo collocati nella realtà sociale, e quindi avvertiamo come soggettive (riferite o addirittura originate in noi stessi) quelle relazioni (materiai, economiche e interpersonali) che sono in realtà sociali e, in una prospettiva più ampia, storiche. Il processo è continuo, il suo conseguimento è interminabile o si rinnova quotidianamente. Per ogni persona, quindi, la soggettività è permanentemente in corso, e non un punto fisso di partenza o di arrivo sulla base del quale interagiamo col mondo. Al contrario, è l’effetto di quell’interazione che io chiamo esperienza; essa è quindi prodotta non da idee, valori, o cause materiali esterne, ma dal coinvolgimento personale e soggettivo nelle pratiche, nei discorsi e nelle istituzioni che conferiscono significato (valore, senso e affettività) agli eventi del mondo”.
Teresa De Lauretis, Sui generis. Scritti di teoria femminista (1996)
“La capacità e la possibilità di vedere, percepire, elaborare la nostra esperienza di vita come trans rappresentava la coscienza, la chiave per accedere a tutto quanto ci era fino a quel momento precluso. Eravamo finalmente noi che leggevamo il mondo e non il contrario, eravamo finalmente noi che ne costruivamo uno nostro, decisamente meno scomodo. Oggi mi appare chiaro, quasi del tutto scontato, che il ribaltamento da una condizione di vittime a un’esperienza da protagoniste parte da sé, passa dalla presa di parola, dalla narrazione di sé, dalla nostra lettura del mondo”.
Porpora Marcasciano, L’aurora delle transcattive (2018)