LA CASA SUL FILO

suggerimenti per un percorso di educazione antiviolenta

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“L’identità conscia è la riflessione che il soggetto fa sulla propria continuità temporale e sulla sua differenza dagli altri”.
Umberto Galimberti, Dizionario di psicologia (1992)

 

“La parola identità presuppone la presenza di due identità, di due realtà in modo tale che gli elementi dell’una possano corrispondere, in modo identico appunto, agli elementi dell’altra. Nel nostro modello psicofisiologico l’identità [...] è il prodotto della corrispondenza tra rappresentazioni del Sé, inteso in senso corporeo e psicologico, ed esperienza del Sé, anch’essa corporea e psicologica. [...] L’Io presuppone la costruzione di una entità psicobiologica storicamente determinata, d’altra parte consideriamo lo stesso Io prodotto di sintesi e di integrazione di diversi livelli funzionali. L’Io pertanto è ad un tempo il prodotto di continue operazioni di sintesi e l’organizzatore di ogni ulteriore comportamento”.
Vezio Ruggieri e Anna Rita Ravenna, Transessualismo e identità di genere (1999)

 

“Non esiste l’identità bensì esistono modi diversi di organizzare il concetto di identità. Detto in altri termini, l’identità viene sempre, in qualche modo, ‘costruita’ o ‘inventata’ [...]. Decidere l’identità è dunque violenza contro le ragnatele delle connessioni; ma è anche tentativo talvolta eroico (e irrinunciabile) di salvazione rispetto all’inesorabilità del flusso e del mutamento”.
Francesco Remotti, Contro l’identità (1996)

 

“Diamo per scontato che la vita produca l’autobiografia, così come un atto produce le sue conseguenze, ma non potremmo pensare, in modo altrettanto valido, che il progetto autobiografico produca e determini la vita? […] La pratica autobiografica implica la selezione e il posizionamento di eventi passati che abbiano una relazione significativa con il finale della storia; […] La narrazione è quindi uno strumento per persistere nella propria esistenza individuale, ma è anche lo strumento principale attraverso il quale viene prodotto il riconoscimento identitario di fronte all’altro; narrando la propria storia si viene riconosciuti come soggetti, e il desiderio di narrare la propria storia è un desiderio di riconoscimento”.
Elisa AG Arfini, La ricercatrice vulnerabile. Percorsi narrativi di co-costruzione di genere, sessualità e dis/abilità (2014)

 

“Allo stesso modo in cui l’attore dipende per il suo ingresso in scena dal palcoscenico, dalla compagnia e dagli spettatori, così ogni essere vivente dipende da un mondo che appare quale luogo per la propria apparizione, dai suoi simili per recitare la sua parte con loro, dagli spettatori perché la sua esistenza sia ammessa e riconosciuta”.
Hannah Arendt, La vita della mente (1978)

 

“Unica e irripetibile, l’identità del sé non è dunque né un effetto di discorso, né un vortice di frammenti, né una sostanza autofondata. È piuttosto un’identità, tutta esposta ed esterna, che affida il suo desiderio di senso allo sguardo, ai gesti e alle parole altrui”.
Adriana Cavarero, Il pensiero femminista. Un approccio teoretico (1999)

 

“Il Sé cerca e offre riconoscimento a un altro, il quale non fa altro che confermare come il processo del riconoscimento riveli che il sé è già da sempre al di fuori di se stesso. […] ‘Noi’ che siamo, per definizione, relazionali, non possiamo esistere al di fuori di questa relazionalità, e neppure concepirci al di fuori degli effetti decentrati che tale relazionalità comporta. Inoltre, qualora consideriamo che le relazioni che ci definiscono non sono diadiche, ma si riferiscono sempre a un retaggio storico e a un orizzonte futuro che non è circoscritto all’Altro, ma che costituisce qualcosa di simile all’Altro dell’Altro, allora ‘siamo’ essenzialmente dei soggetti in una catena temporale del desiderio, la quale solo occasionalmente e provvisoriamente assume la forma della diade”.
Judith Butler, Fare e disfare il genere (2004)

 

“La solitudine e il senso di separatezza e divisione che costituisce l’Io corporeo e segna l’inizio di ogni storia e la possibilità stessa della storia […] si configura in varie forme nel pensiero novecentesco, prendendo i nomi di separazione dal corpo materno, divisione del soggetto nel linguaggio, différance, alienazione, alterità, ecc. Da lì nascono il desiderio, le illusioni che lo sorreggono, i fantasmi in cui si articola la sessualità e con essa la dimensione corporea e psichica della soggettività; ma da lì nascono anche la progettualità politica, il bisogno di identità e riconoscimento, di individualità e collettività, di singolarità e appartenenza”.
Teresa De Lauretis, Soggetti eccentrici (1996)

 

“La produzione di un’esperienza unitaria non va intesa come un semplice collage di parti: essa è sostenuta da un sorta di ipotetica ‘pulsione istintuale’ verso l’unità... La componente di piacere cosiddetta narcisistica [...] è per così dire il collante che contribuisce a dare unità all’esperienza corporea”.
Vezio Ruggieri e Anna Rita Ravenna, Transessualismo e identità di genere (1999)

 

Identità femminili e identità maschili

“Il primo altro che incontro è il corpo della madre, e quest’incontro non è lo stesso a seconda che io sia una bambina o un bambino. Questa diversità nella prima relazione con il corpo dell’altro può entrare nella costituzione dell’identità della donna o dell’uomo. Inoltre il mio corpo è abitato da una coscienza a partire dalla sua prima relazione con l’altro parentale, in particolare con la madre. Tale rapporto non è neutrale; è sessuato”.
Luce Irigaray, Essere due (1994)

 

“Il fatto essenziale e fondamentale è che per quasi tutti noi è la madre a fornire il contesto emozionale da cui si ricava la discriminazione tra il sé e l'altro da sé: tale elemento inevitabilmente falsa le nostre percezioni di genere. Ma nella costellazione familiare a noi più nota è soprattutto al padre (o, meglio, alla figura paterna) che il bambino si rivolge per essere protetto dalla paura di riassorbimento, dalle ansie e dai timori di disintegrazione di un Io ancora fragilissimo. È quindi il padre a ergersi come rappresentante dell'individuazione e della differenziazione (anzi, della stessa realtà oggettiva): è il padre che può rappresentare il mondo ‘reale’ grazie al suo essere nel mondo reale”.
Evelyn Fox Keller, Sul Genere e la Scienza (1985)

 

“Quando il principio degli opposti maschile-femminile arriva alla coscienza della bambina, qualsiasi ne sia la forma, il rapporto originario con la madre è - come per il maschile - il rapporto attivo; per la fanciulla però cadono tutte le complicazioni che l’esperienza della diversità crea nel ragazzo. L’identità con la madre nel rapporto originario può continuare a esistere anche quando il femminile arriva a ‘sé’ come femminile, e la sua autoidentificazione è primaria poiché può benissimo coincidere con il rapporto primario. Questo significa che il femminile può restare all’interno del rapporto originario fiorendo e trovando se stesso, senza dover abbandonare il cerchio dell’uroboro materno e della Grande Madre. Finché permane in questa situazione è certamente infantile e non maturata dal punto di vista dello sviluppo cosciente, però non è estraniata da sé”.
Erich Neumann, La psicologia del femminile (1953)

 

“Una donna diventa donna seguendo le orme della madre, mentre nell’esperienza maschile ci deve essere una rottura. Per diventare adulto, il ragazzo deve provare se stesso – la sua mascolinità – fra i suoi pari, e sebbene tutti i ragazzi probabilmente riescano a raggiungere la maturità, in ogni cultura tale sviluppo è considerato come qualcosa che si ottiene individualmente”.
Michelle Zimbalist Rosaldo e Louise Lamphere, Women, Culture and Society: a theoretical overview (1974)

 

“Mentre la femmina di una società in cui tutte si sposano è praticamente certa di risolvere qualsiasi dubbio insorto in lei circa l’appartenenza al suo sesso nel corso naturale della sua lunga infanzia e fanciullezza, il maschio ha bisogno di riaffermare, di mettere alla prova e di ridefinire continuamente la sua mascolinità”.
Margaret Mead, Maschio e femmina (1949)

 

“Tutti gli uomini - indipendentemente dall’età, dalla classe, dall’etnicità e dalla razza - sembrano soffrire della difficoltà di stabilire l’intimità, una difficoltà che nasce dal bisogno del maschio bambino di rifiutare la sua originaria vicinanza alla madre”.
Michael Roper, Masculinity and the British organization man since 1945 (1994)

 

“Imparando ad accettare la storia dei nostri desideri scopriamo il dolore con cui siamo stati costretti a rinunciare, o abbiamo scelto di rinunciare, a certi aspetti di noi stessi. La nostra dolcezza e la nostra gentilezza sono state negate, ma altrettanto lo è stata la nostra rabbia o la nostra collera quando erano identificate con nostra madre, dalla quale ci siamo sforzati di distanziarci. È importante notare il modo in cui siamo stati, in un certo senso, estraniati da noi stessi, avendo imparato ad esercitare il controllo, inteso come dominio, sulla nostra vita emotiva e sui desideri”.
Victor Seidler, Riscoprire la mascolinità (1992)

 

“‘Identificarsi come’ deve sempre prevedere multipli di ‘identificazione con’ e ‘identificazione contro’ e anche se così non fosse, le relazioni implicite nell’‘identificazione con’ sono, come suggerisce la psicoanalisi, esse stesse già sature di sentimenti di incorporazione, di diminuzione, d’inflazione, di minaccia, di perdita, di riparazione e di rifiuto”.
Eve Kosofsky Sedgwick, Nelle segrete stanze (1990)

 

“La creatura di sesso femminile, infatti, si situa nel punto insieme centrale e conclusivo del continuum (salvo poi riaprirlo, se diventerà a sua volta madre), mentre quella di sesso maschile ne sta fuori simbolicamente estromessa nel momento stesso in cui la madre viene a sapere del suo sesso. La differenza sessuale è dunque presente dalle origini nella relazione con la madre”.
Luisa Muraro, L’ordine simbolico della madre (1992)

 

“Riconoscere la natalità – il legame concettuale fra il paradigma ‘donna’ e il corpo che genera – non implica che tutte le donne possano o debbano generare. L’accento sulla natalità, invece, come una categoria astratta di sé (donne) corporale significa che abbiamo bisogno di ripensare l’identità. Il ‘sé’ non è una cosa fissa, permanente, già data, o una ‘sostanza’ che soggiace alle metamorfosi ma che non di meno rimane sempre inalterata attraverso i cambiamenti. Al contrario, dobbiamo pensare l’identità come emergente da un gioco di relazioni a campi di forze che insieme costituiscono gli orizzonti di uno spazio-tempo condiviso. Abbiamo bisogno di una metafisica della fluidità e di relazioni mobili; non di una metafisica della fissità, o perfino della flessibilità. Tuttavia, quella metafisica deve anche essere in grado di spiegare come un soggetto potrebbe essere spinto dalla relazionalità nell’unicità”.
Christine Battersby, The Phenomenal Woman (1998)

 

“La funzione materna […] si autoriproduce attraverso le differenti esperienze di relazioni oggettuali che vengono fatte dal maschio e dalla femmina […]. Per il fatto di essere state accudite da una donna le donne tenderanno più degli uomini a desiderare di essere madri, vale a dire a ricollocarsi in un rapporto madre-figlio di tipo primario, a trarre gratificazioni dal rapporto materno e a sviluppare capacità psicologiche e relazionali adatte a fare le madri […]. Siccome sono le donne a fare le madri, la prima esperienza e il rapporto preedipico sono diversi per il maschio e per la bambina […], la bambina non interrompe mai il suo rapporto con la madre […] ciò significa che il senso di sé della donna comporta una continuità con gli altri e che essa conserva la capacità di formare identificazioni primarie. […] nell’uomo queste qualità sono state ridotte, sia perché il maschio è stato trattato dalla madre come un proprio opposto, sia perché il suo successivo attaccamento alla madre deve essere rimosso”.
Nancy Chodorow, La funzione materna. Psicoanalisi e sociologia del ruolo materno (1978)


“La donna si è sempre conosciuta a un tempo come figlia e come potenziale madre, mentre l’uomo, nella sua dissociazione dal processo del concepimento, prima si percepisce come figlio e solo molto più tardi come padre. Quando l’uomo ha cominciato ad affermare la sua paternità e, su questa base, ad avanzare certe pretese di potere sulle donne e i figli, vediamo emergere il processo con cui ha compensato – e, si potrebbe dire, ha vendicato – la sua precedente condizione di figlio-della-madre”.
Adrienne Rich, Nato di donna (1976)

 

“Poiché il maschile sperimenta come un non-Sé la situazione originaria, l’identità con la madre, con l’altro femminile, l’autoidentificazione maschile, che è all’opposto del rapporto originario, può essere raggiunta solo in una fase più tarda dello sviluppo. Il maschile giunge alla scoperta e al consolidamento di sé soltanto con il distacco dal rapporto originario e con l’oggettivazione nei suoi confronti; se ciò non riesce egli rimane castrato nell’incesto uroborico e matriarcale cioè estraniato e improprio a se stesso”.
Erich Neumann, La psicologia del femminile (1953)

 

“La prima conoscenza che una donna ha di tepore, nutrimento, tenerezza, sensualità, reciprocità, le viene dalla madre. Il primo coinvolgimento di un corpo femminile con un altro può prima o poi essere negato o respinto, percepito come soffocante possessività, rifiuto, trappola, tabù; ma è, al principio, il mondo intero. Naturalmente anche il neonato maschio conosce tenerezza, nutrimento, reciprocità da un corpo femminile. Ma l’eterosessualità e la maternità istituzionalizzate richiedono che la bambina trasferisca queste prime sensazioni di dipendenza, erotismo, reciprocità, dalla sua prima donna a un uomo per diventare ciò che viene definita una donna ‘normale’, cioè una donna le cui energie psichiche e fisiche più intense sono dirette verso gli uomini”.
Adrienne Rich, Nato di donna (1976)

 

“Il soggetto donna si costituisce in uno specifico tipo di relazione con la realtà sociale? Tramite un tipo particolare di esperienza, e più esattamente una particolare esperienza della sessualità? E se rispondiamo affermativamente, se diciamo che una data esperienza della sessualità produce come suo effetto l’essere sociale che chiamiamo il soggetto donna, se è quell’esperienza, quell’insieme di abitudini, disposizioni, associazioni e percezioni, a in-generarci donne, allora è quello che va analizzato, compreso, articolato dalla teoria femminista”.
Teresa De Lauretis, Sui generis. Scritti di teoria femminista (1996)

 

“Una donna deve innanzitutto logorare dentro di sé i legami con l’identità di cui la cultura dell’uomo l’ha dotata. All’identità femminile, prodotta dall’uomo, subentra un ‘io non conforme’ alla femminilità ed è da questo movimento della singolarità in relazione che prende forma la soggettività sessuata”.
Maria Luisa Boccia, La differenza politica. Donne e cittadinanza (2012)

 

“Via via che le ragazzine si avvicinano all’adolescenza, incontrano i due sentieri battuti che portano le donne nella società patriarcale: quello della femminilità convenzionale e quello secondo cui ‘le ragazze sono come i maschi’, cioè l’adozione, approvata dalla cultura, dei modelli di identità e di agire maschili. […] Di fatto, questi due sentieri vengono presentati come le vie del successo, come la strada scelta dalle madri o che le madri avrebbero desiderato scegliere”.
Elizabeth Debold, Marie Wilson, Idelisse Malavé, Madri e figlie una rivoluzione. Dal conflitto all’alleanza (1994)

 

“Uscire dal recinto dell'immaginario maschile e patriarcale, intraprendere il viaggio che ci porta a riappropriarci di ciò che è il nostro femminile, specifico della ‘razza’ delle donne, non è faccenda da poco. Significa disattendere le immagini di un io collettivo che ha dalla sua migliaia di anni, frantumare strati di rimozione, ricercare un'identità che non sia più, o non solo, la rappresentazione del desiderio maschile. Il prezzo è alto e le conquiste pari alle perdite, poiché queste trasformazioni non avvengono attraverso il pensiero o la volontà animosa. Non vogliamo un sovvertimento delle gerarchie, ma abbiamo bisogno di rientrare in un mondo da cui ci hanno e ci siamo esiliate”.
Gabriella Buzzati e Luciana Percovich (a cura di), Verso il luogo delle origini  (1992)

 

“Fa parte […] della nostra singolare intelligenza, della nostra particolare conoscenza di noi stesse e del mondo, il fatto che ognuna di noi debba giungere a elaborare di sé la propria immagine. Ognuna di noi […] dovrà scoprire o inventare il proprio volto unico, irripetibile, originalissimo. E lo potrà fare soltanto accettando un complesso lavoro di creazione e decreazione… Rispetto al quale lavoro di tessitura, la donna è diventata in questi anni, nel diritto e nel rovescio, abilissima. In quel campo immaginario, in cui tra il corpo e il pensiero si elaborano le immagini della nostra singolarità di creature viventi, dotate di corpo e di linguaggio, lì le donne si sono riscoperte come possibilità. E dunque potenzialmente ‘libere’, non costrette semplicemente a obbedire, o rifiutare le leggi estranee; ma padrone di creare quelle immagini e quei pensieri che porteranno ciascun essere a diventare ciò che è: ogni uno diverso dall’altro, tutti unici, irripetibili”.
Nadia Fusini, Uomini e donne. Una fratellanza inquieta (1995)

 

“Sappiamo come crescendo, il bambino sia costretto a sviluppare soprattutto quelle tendenze che sono un’estrinsecazione della sua ‘mascolinità’ psicologica: chi lo obbliga è la società, in primo luogo tramite la famiglia, così come, mediante l’educazione e la famiglia, la società costringe la bambina a sviluppare quegli aspetti della sua personalità che sono espressione della ‘femminilità’ psicologica. In tal modo l’educastrazione tende anzitutto a negare l’ermafroditismo psichico e biologico presente in tutti per fare della bambina una donna e del bambino un uomo secondo i modelli sessuali contrapposti della polarità etero-sessuale. La ‘mascolinità’ e la ‘femminilità’ psicologiche, rispettivamente e separatamente estrinsecate dal bambino e dalla bambina per effetto dell’educazione (che è soprattutto rapporto di subordinazione nei confronti dei genitori e, più in generale, degli adulti), non fanno che riflettere le forme storiche contingenti e mutilate della virilità e della femminilità che la società assolutizza e che si reggono sulla soggezione-repressione delle donne, sull’estraneazione dell’essere umano da sé e sulla negazione della comunità umana”.
Mario Mieli, Elementi di critica omosessuale (1977)

 

Identità di genere

“Identità di genere è l’uniformità, l’unità e la persistenza della individualità di una persona quale maschio, o femmina o quale persona ambigua, in maggiore o in minore grado, specie come esperita nell’autoconsapevolezza e nel comportamento; l’identità di genere è l’esperienza privata del ruolo di genere, e il ruolo di genere è l’espressione pubblica dell’identità di genere”.
John Money e Patricia Tucker, Essere uomo, essere donna (1975)

 

“La maggior parte dell’identità di genere non è semplicemente biologica e neppure sociale: è innanzitutto relazionale. Non è allo stesso modo del ragazzo che la ragazza si riferisce a se stessa, al mondo, all’altro/agli altri. Ciò si spiega per il fatto che, nata da una donna, sua madre, con la possibilità di identificarsi con lei e di generare come lei, la ragazza entra quasi naturalmente, dalla nascita, in relazione con un altro soggetto. Inoltre la donna ospita in sé l’uomo nell’amore, e genera in sé la donna e l’uomo, realtà che induce da parte sua un certo tipo di rapporto con l’altro. Il ragazzo prova molta più difficoltà a entrare in relazione con un altro soggetto, soprattutto di un genere diverso dal suo. Nato da una donna, con cui non si può identificare e che non può imitare, il ragazzo si costruisce un proprio mondo in gran parte fatto da oggetti che lo proteggono dal mistero dell’altro e che scambierà, con lei o innanzitutto con lui, per poter comunicare”.
Luce Irigaray, Chi sono io? Chi sei tu? (1999)

 

“La ‘coerenza’ e la ‘continuità’ della ‘persona’ non sono caratteristiche logiche o analitiche dell’essere persona, ma, piuttosto, norme di intelligibilità socialmente istituite e conservate. Dal momento che l’‘identità’ è garantita per mezzo dei concetti stabilizzatori di sesso, genere e sessualità, la nozione stessa di ‘persona’ viene messa in discussione dall’emergere culturale di quegli esseri ‘incoerenti’ e ‘discontinui’ dal punto di vista di genere che pur sembrando delle persone non riescono a conformarsi alle norme di genere relative all’intelligibilità culturale che rendono tali le persone”.
Judith Butler, Questione di genere. Il femminismo e la sovversione dell’identità (1999)

 

“Le preferenze sessuali e l’identità di genere sono fluide, perciò il fatto che oggi ti senti in un particolare modo non vuol dire che ti sentirai allo stesso modo tra cinque anni. Tantissime persone cambiano la propria identità sessuale, e questo va bene. Se tutto può essere cambiato e noi viviamo in uno spettro fluttuante e instabile di desiderio sessuale (ben problematico da definire, a dir poco), perché mai dovremmo preoccuparci delle etichette? Perché non andiamo in giro con fiori tra i capelli e facciamo sesso con chi ci piace senza guardare al genere? Be’, probabilmente perché è difficile da immaginare. Alla fine è più semplice potersi definire con una sola parola, quando si parla con gli altri”.
Juno Dawson, Questo libro è gay (2018)

 

“Queer sta diventando percepibilmente un concetto-ponte per pensare un’irreversibile pluralizzazione nelle economie dei corpi e dei piaceri, un’epoca nuova del soggetto. Nello slittamento semantico del suo senso, queer segnalerebbe che quella che comunemente è stata chiamata omo-sessualità cessa di rappresentarsi in uno spazio binario polare condiviso con l’eterosessualità, e quindi come semplice opzione al suo interno, o come categoria sessuo-logica, per trovare/inventare un nuovo essere del desiderio, aperto a tutte le sedimentazioni soggettive alternative alle sessuazioni identitarie. […] ‘Appartenere alla non appartenenza’ apre però, anche nella sua evidenza semantica, un’aporia non scioglibile: quella di un’identità (del) reale che si ricava dalla soppressione di tutte le identificazioni, simboliche e immaginarie”.
Fabrizia Di Stefano, Il corpo senza qualità. Arcipelago queer (2010)

 

“Gli altertipi si costruiscono […] attraverso una sorta di bricolage, mescolando caratteristiche e attività ritenute proprie di diversi modelli di ruolo (a esempio, professionale) e diversi modelli di genere”.
Chiara Bassetti, Da Anna Bolena a Patrizia D’Addario. Appello per altertipi (2014)

 

“Di fronte alle dinamiche anomiche della nostra estrema modernità, resta da pensare se il queer, che in parte ne riflette e ne riproduce i movimenti, non sia anche lo spazio aperto che possa contenere altre significazioni, differenti fantasmi, desideri nuovi. Se possa essere qualcosa di diverso da una teoria definente il soggetto, che fronteggerebbe l’altro solo come tolto o risolto nel movimento autocentrato del soggetto. Se il queer anziché pensarsi come lembo estremo delle soggettività sessuate o come una sovraidentità distinta, possa essere pensato come il discorso che apre ai diversi posizionamenti del sessuato. Se il queer possa essere affetto dai movimenti dell’alterità: se possa generare nuove figure dell’amoroso e inedite specie dell’amicizia”.
Fabrizia Di Stefano, Il corpo senza qualità. Arcipelago queer (2010)

 

“Sopravvenuti problemi fisici che mettevano a repentaglio, secondo i medici, la mia capacità riproduttiva, la falsa coscienza indotta dalla cultura egemone dell’assenza di stabilità lavorativa e affettiva in un’età ‘normalmente’ caratterizzata da epiloghi matrimoniali e riproduttivi, hanno reso gli effetti materiali di queste insidie simboliche abbastanza pesanti. Tutto ciò unito all’erosione delle reti affettive e politiche – profondamente minate anche e soprattutto dalla durezza della vita precaria, che nel frattempo aveva colpito inequivocabilmente anche le/i mie/i compagne/i, i familiari e gli amici più cari – ha portato una deviazione subconscia delle mie pratiche di vita verso la ricerca di amori eterosessuali, apparentemente più ‘stabilizzanti’ e in grado di rimandarmi un’immagine di me meno ‘eccedente’, più ‘normale/normalizzata’”.
Chiara Martucci e Gaia Giuliani, The Love Word. Autonarrazioni a confronto (1993-2013) (2014)

 

“Non è più possibile limitarsi a fare affidamento su un’identità subalterna per assicurarsi una posizione critica rispetto alla norma, perché le differenze sono così facilmente assimilate, ripulite, codificate, smerciate, neutralizzate senza essere cancellate”.
Elisa AG Arfini, Lesbica. L’altra che altera (2012)

 

Identità o soggettività?

“Il problema per le donne è di riferirsi o lasciarsi interpellare dalla categoria del femminile senza lasciarsi oggettificare. In altri termini: per poter ridefinire la soggettività femminile dobbiamo partire da una definizione dell’essere donna che è già contaminata da presupposti oggettificanti per le donne che compiono questa operazione”.
Rosi Braidotti, Il paradosso del soggetto “femminile e femminista”. Prospettive tratte dai recenti dibattiti sulle gender teorie (1991)

 

“Sentirsi diverse in un altro mondo e se stesse in esso è una conquista, una battaglia contro il solipsismo”.
Christine Sylvester, African and Western feminism: word travelling the tendencies and possibilities (1995)

   

“Dobbiamo tracciare cartografie alternative delle nostre soggettività non-unitarie, così da poterci liberare dell'idea che possano esistere soggetti completamente unitari, che appartengono a un solo luogo. […] Penso che il primo passo sia eliminare le identità. Non arriveremo da nessuna parte prendendo l'identità come punto di partenza. Anzi, l'intero processo del divenire significa abbandonare l'identità e costruire la soggettività, che è per definizione trasversale, collettiva”.
Rosi Braidotti, Conversazioni sul nomadismo (2010)

 

“Essere inappropriate/bili non significa ‘non essere in relazione con’ – ad esempio chiudersi in una riserva speciale, godere dello status di autenticità e intangibilità, nella condizione allocronica e allotopica dell’innocenza. Al contrario essere inappropriate/bili significa trovarsi in una relazionalità critica e decostruttiva, in una razionalità difrattiva e non riflettente: un modo per tessere connessioni potenti che spezzino i rapporti di dominazione. Essere inappropriate/bili non significa rientrare in un’unità tassonomica (taxon), trovarsi su una mappa già disponibile che specifichi tipi di attori e narrative, non equivale a essere originariamente segnate/i dalla differenza. Essere  inappropriate/bili non vuole dire essere moderne o postmoderne, bensì insistere sull’amoderno. […] Un modo per pensare la differenza come ‘differenza critica interna’, non come speciale marcatore tassonomico che trasforma la differenza in un apartheid”.
Donna Haraway, Le promesse dei mostri (1992)

 

“Il soggetto della postmodernità è stretto, per un verso, dalle aspettative umanistiche di decoro e dignità e per l’altro dai segni sempre più evidenti di un universo postumano fatto di spietate relazioni di potere mediate dalla tecnologia. Bisogna ricollocare il soggetto tra le ‘nuove’ narrazioni dominanti che mirano a restaurare le figure tradizionali e unitarie del sé – di modello neoliberale -, in modo da poter proseguire l’appassionante ricerca sulle possibili alternative. […] La soggettività non-unitaria è intesa qui come nomade, disseminata e frammentata e tuttavia funzionale, coerente e responsabile, soprattutto in quanto radicata e incarnata”.
Rosi Braidotti, Trasposizioni. Sull’etica nomade (2006)

 

“L’eco-femminismo e il movimento di azione diretta e non violenta hanno condotto lotte fondate sulle differenze e non sull’identità. I gruppi di affinità, e i processi infiniti che li caratterizzano, perdono ogni necessità d’essere quando prevale l’identità. L’affinità non è affatto identità”.
Donna Haraway, Le promesse dei mostri (1992)

 

“È evidente quanto il primato della soggettività, rispetto a quello dell’identità, possa sconvolgere l’ordine simbolico delle culture dominanti. Il soggetto è mutante e indefinibile, laddove l’identità è identificante e definita. E quanto possa sconvolgere i sistemi politici. Il soggetto è molto meno controllabile e governabile, per esempio, di un’identità nazionale. Ma cosa significa, nei rapporti tra donne, mettere al centro dell’attenzione il soggetto anziché l’identità? Quali interrogativi pone al rapporto tra donne del nord del mondo e donne del sud del mondo? Quando la pariteticità tra donne è qualcosa di ancora incompiuto, perché di fatto le Leggi e le politiche dei paesi occidentali sono tutte improntate - segregativamente o paternalisticamente - a ribadire la dicotomia Sé/Altro-da-Sé, quale può essere lo spazio di azione di un femminismo attento a promuovere emancipazione, senza sopravanzare le posizioni individuali? E soprattutto, considerata la “situazione” del femminismo occidentale, quali pratiche possono evitarci di cadere nel tranello rappresentativo Sé/Altro-da-Sé? Cosa possiamo permetterci di dire, e cosa dobbiamo rinunciare a dire, dalla posizione di forza, quantomeno politica, che di fatto noi occidentali occupiamo?”.
Letizia Lambertini, Donne in movimento. Una riflessione sul rapporto tra gender studies e migrazione

 

“Una delle ragioni per cui attualmente non esiste una piattaforma comune e collettiva è che gli approcci che sono alternativi allo status quo sembrano avere a che fare unicamente con l’interesse, le propensioni e la moralità individuali. Per le femministe, la critica all’essenzialismo impedisce la costruzione di una simile piattaforma sulla base di un’identità comune; tuttavia è curioso come, se l’identità non è la stessa, i problemi però lo siano e i legami tra individui e gruppi nascano sulla base di risposte e resistenze all’oppressione condivise”.
Genevieve Vaughan, Le donne e l’economia del Dono. Una visione radicalmente diversa del mondo è possibile (2009)

 

“Non si tratta di confermare identità fisse o di rivendicare delle contro-identità, ma di creare delle posizioni di soggetto alternative, pensabili e condivisibili. Sostenere ed esprimere le complessità interne di queste posizioni di soggetto comporta un’assunzione di responsabilità per quanto riguarda i valori etici e il legame collettivo la coscienza riguarda la co-sincronia: zone di tempo condivise, memorie condivise e una condivisibile tempistica dei progetti”.
Rosi Braidotti, Trasposizioni. Sull’etica nomade (2006)

 

“In questa finitezza dell’Io nel tempo e nello spazio sta l’elemento tragico, in senso proprio irrisolvibile, dell’impossibile identificazione tra persone e società, politico e personale. Nessuno dei grandi meccanismi che surdeterminano la mia esistenza, nessuno degli ingranaggi storici in cui sono irrimediabilmente inserita darà ragione di me; essi non sono la mia identità. Ma non posseggo un’identità che non si foggi nelle relazioni di accettazione, rifiuto, mediazione con essi [...]. Un valico insormontabile sta tra l’interpretazione che diamo della storia come memoria e sapere significante, e il vissuto di coloro che l’hanno traversata; essa è sempre più e meno della biografia”.
Rossana Rossanda, Anche per me. Donna, persona, memoria (1987)

 

“I soggetti sono campi di forze che mirano alla durata e a una felice realizzazione di sé. Per riuscirci hanno bisogno di negoziare il proprio cammino, evitando le trappole della negatività che la cultura fallogocentrica mette sulla strada che porta al compimento della loro intrinseca positività. Ricordare secondo questa modalità nomade è davvero reinventare un sé che è felicemente discontinuo, al contrario dell’essere tristemente consistente come previsto dalla cultura fallogocentrica. E mina alla base la sacralità del passato e l’autorevolezza dell’esperienza”.
Rosi Braidotti, Trasposizioni. Sull’etica nomade (2006)