LA CASA SUL FILO

suggerimenti per un percorso di educazione antiviolenta

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“Che io non possa ridurre il reale al pensabile, ecco il trionfo della libertà possibile. O, paradossalmente: solo perché non mi sono fatto da solo io posso essere libero; se mi fossi fatto da solo, avrei potuto prevedermi e, in tal modo, avrei perso la libertà”.
Hannah Arendt, Che cos’è la filosofia dell’esistenza? (1946)

 

“Il corpo delle biotecnologie è un corpo le cui possibilità sono potenzialmente illimitate. La fantasia di una materia fuori dal tempo emerge dalle tecniche di crioconservazione dei gameti, dalla discontinuità introdotta dalle diverse sequenze nel processo riproduttivo, dall’irrilevanza della menopausa, dalla focalizzazione sulle parti del corpo piuttosto che sui corpi vissuti”.
Alessandra Gribaldo, Riproduzione assistita. Tecnicamente naturale (2012)

 

“Un cyborg è un organismo cibernetico, un ibrido di macchina e organismo, una creatura che appartiene tanto alla realtà sociale che alla finzione. […] il cyborg è anche l’orrido telos apocalittico del crescente dominio dell’individuazione astratta: un sé supremo finalmente libero da ogni forma di dipendenza”.
Donna Haraway, Manifesto cyborg (1995)

 

“A ben vedere dietro le immagini di identità mutanti riemerge il profilo, già definito alle origini della modernità, del soggetto che si pone al centro del discorso e della realtà, come artefice di se stesso e delle proprie condizioni di vita. L’individuo razionale, protagonista del contratto sociale, dispone innanzitutto del sé corporeo, come risorsa e oggetto primo su cui esercitare padronanza. […] Le pratiche tecnologiche rafforzano infatti proprio la scissione tra corpo e mente che il femminismo ha tenacemente contrastato, riducendo il corpo a un prodotto della mente che progetta”.
Maria Luisa Boccia, Nominare il genere (2001)

 

“La concezione dell’essere originato dal nulla e destinato al nulla, questo nichilismo tipico della cultura moderna, è una falsa soluzione del problema posto dall’esperienza del divenire. Ebbene, anche il nichilismo che dà alla finzione il posto dell’essere è la falsa soluzione di un problema vero. Si tratta del problema posto dalla mancanza di autorità simbolica, l’autorità cioè di affermare quello che è, che la lingua possiede e che noi facciamo nostra imparando a parlare”.
Luisa Muraro, L’ordine simbolico della madre (1992)

 

“L’incrocio transgenico implica una seria sfida alla ‘sacralità della vita’ per molti di coloro che, appartenendo alle culture occidentali, sono stati storicamente ossessionati dalla purezza della razza, dalle categorie sancite dall’autorità della natura e dalla nozione del sé come entità ben definita. […] Gli intellettuali occidentali, e in particolar modo i filosofi e gli scienziati della natura, hanno probabilmente scambiato resoconti culturalmente marcati per realtà universali. In questo contesto è un errore dimenticare che l’angoscia della contaminazione della discendenza è all’origine del discorso razzista nelle culture europee, così come è al cuore delle parallele angosce sessuali e di genere. L’incrocio trasgressivo inquina le eredità genetiche - nel caso di un organismo transgenico, l’eredità della natura stessa – trasformando la natura nel suo opposto, la cultura. La linea che separa le azioni, gli attori e i prodotti della creazione divina dall’ingegneria umana è svanita nelle zone di confine, sacre e profane, della genetica molecolare e della biotecnologia”.
Donna Haraway, Testimone_Modesta@ FemaleMan_incontra OncoTopo. Femminismo e tecnoscienza (1997)

 

“L’Io è anche una necessità politica, una necessità di sopravvivenza sia fisica che psichica, e quindi anche epistemologica. È un io corporeo, come dice Freud, magari immaginario (dice Lacan), ma tale che tanto più lo si estende operando sui dati fisici del corpo, ricostruendogli parti, organi, genitali, potenziandolo o modificandolo con protesi, insomma quanto più si fa cyborg, tanto più questo corpo deve fare riferimento a un Io, soggetto desiderante e soggetto politico: soggetto preso in una duplice tensione, erotica ed etica, che a volte lo immobilizza, altre volte gli apre le porte e le finestre dell’impensabile. […] È ciò che voglio opporre all’invasione tecnologica […] bisogna anche misurarsi con le negazioni e le limitazioni del proprio corpo”.
Teresa De Lauretis, Soggetti eccentrici (1996)

 

“All’interno della cerchia di amiche trans, filo donne e travestite, si tendeva a essere favolose, desiderose di gestire, maneggiare e trasformare il nostro corpo, non tralasciando alcun particolare. […] Nonostante ripetessimo all’infinito, a noi stesse e al mondo, di essere donne rivendicandone l’appartenenza, in cuor nostro percepivamo il limite di quella dichiarazione che, per quanto mi riguarda, restava profondamente simbolica, quindi fondamentalmente politica. Non era diffusa tutta l’elaborazione teorica che in seguito ci avrebbe arricchite, offrendoci strumenti interpretativi sul transgender, le varianze di genere, la non conformità, per cui ristagnavamo nella dicotomia uomo-donna […]. Restare in mezzo, senza percorrere tutto il transito normalmente inteso fino all’operazione, esponeva al famigerato giudizio trans che tutte indistintamente temevamo: quello di essere o restare irrisolta, equivalente nella gran parte dei casi al classico ‘sei frocio’. Il giudizio trans era una trappola disgraziata. Esso agiva come una spada di Damocle all’interno di una comunità che, bistrattata dalla cultura dominante, ne ricreava una propria, spesso speculare, come difesa. Non avevamo modelli chiari e definiti, non avevamo ancora elaborato un pensiero nostro, una visione chiara del binarismo di genere. La risposta che si proponeva era la stessa logica escludente ed esclusiva. Non si conosceva altro se non i modelli, i codici, i simboli di quell’assurda trappola veteropatriarcale per cui da lì si partiva e lì si ritornava con una buona dose di frustrazione che ristagnava nella propria vita”.
Porpora Marcasciano, L’aurora delle transcattive (2018)

 

“Io lavoro sulla tecnologia in una linea antropomorfica, che invita a pensare alla tecnologia come corpo prospettico. […] Il valore sintomatico della tecnologia è che non c’è più la natura, non c’è un corpo, ce ne sono molti”.
Rosi Braidotti, Il tramonto del soggetto e l’alba della soggettività femminile (1993)

 

“La tecnoscienza è molto di più, molto meno, e certamente altro rispetto a quel che Althusser intendeva per ideologia: è una forma di vita, una prassi, una cultura e una matrice generativa. Dare forma e indirizzo alla tecnoscienza è un gioco ad alto rischio. […]. Io appartengo a quella ‘cultura’ che si sente interpellata dalle pratiche e dai discorsi autorevoli della tecnoscienza. A un’interpellazione del genere si risponde in molti modi: preoccupandosi, organizzandosi, divertendosi, condannando, predicando, insegnando, negando, fraintendendo, analizzando, resistendo, collaborando, contribuendo, denunciando, spiegando, placandosi e trattenendosi. L’unica cosa che non possiamo fare in risposta ai significati e alle pratiche che interpellano il corpo e la mente, è rimanere neutrali. Dobbiamo scegliere certi modi di vivere su questo pianeta piuttosto che altri. Non possiamo fingere di vivere su un pianeta diverso, dove il cyborg non sia stato partorito dal ‘cervellutero’ dei suoi genitori guerrafondai verso la metà dell’ultimo secolo del secondo millennio cristiano”.
Donna Haraway, Testimone_Modesta@ FemaleMan_incontra OncoTopo. Femminismo e tecnoscienza (1997)

 

“Da qualche tempo si parla molto degli abusi operati dalle tecnologie a danno della scienza moderna e, in discussioni di questo genere, si tende a stigmatizzare le deformazioni del progetto scientifico che sarebbero intrinseche all’ambizione di dominare la natura, senza però che nessuno si prenda il disturbo di tentare una spiegazione di come tale ambizione sia finita per essere intrinseca alla scienza. […] La storia mette in luce tra l’una e l’altra un rapporto estremamente complesso, forse non meno complesso dell’interrelazione tra i due moventi costitutivi della conoscenza: trascendenza e potere. Sarebbe ingenuo supporre che le connotazioni di maschilità influiscano solo sull’uso che si fa della scienza, senza che la struttura ne resti intaccata”.
Evelyn Fox Keller, Sul Genere e la Scienza (1985)

 

“Le studiose femministe hanno già messo in rilievo gli effetti paradossali e i pericoli insiti nelle forme di decorporeizzazione che contraddistinguono queste nuove tecnologie. Mi colpisce particolarmente il fatto che queste cosiddette ‘nuove’ tecnologie continuano a far circolare immagini di donne che sono pornografiche, violente, umilianti. Sono preoccupata del fatto che si producano programmi che consentono stupri e assassini ‘virtuali’”.
Rosi Braidotti, Madri, mostri e macchine (1996)

 

“La tecnica è però strutturata in modo tale da consentire alla donna incinta di ‘guardare’ o di presumere di ‘guardare’, nel proprio ventre insieme al medico, in real time. Grazie alla tecnica, la donna non si limita ad ascoltare il medico, ma può contemplare l’emblema con i propri occhi e conferirgli lo status di realtà. La percezione della donna viene oggettivata biologicamente. Attraverso la macchina, il proprio interno svelato getta ora un’ombra sul futuro. In pratica la donna viene scorticata, le viene tolta la pelle. Il confine tra dentro e fuori scompare […] Attraverso questa perdita della parete divisoria tra ciò che si mostra e ciò che si prova, l’ectoplasma, la trama dei media, può assumere nella sensibilità della donna incinta, la forma di una ‘vita’ neoplastica”.
Barbara Duden, Il corpo della donna come luogo pubblico. Sull’abuso del concetto di vita (1991)

 

“Corpo è sinonimo di ‘mortalità’, ‘vulnerabilità’, ‘azione’, la pelle e la carne ci espongono allo sguardo degli altri, ma anche al contatto e alla violenza. Il corpo può anche assurgere a luogo e strumento di agency, così come a luogo in cui i confini tra ‘agire’ e ‘subire’ si fanno più rarefatti. Possiamo rivendicare diritti che riguardano il nostro corpo, ma quel corpo per cui lottiamo non ci appartiene mai del tutto”.
Judith Butler, Fare e disfare il genere (2004)

 

“Nell’ordine della nostra civiltà metafisica, pre-genitale e pre-pensante qualsiasi creazione tenderebbe ad imporsi come espropriazione, sfruttamento, sostituzione della/alla procreazione che la ossessiona”.
Antoinette Fouque, I sessi sono due (1995)

 

È ovvio che tutti gli esseri umani hanno sempre dei bisogni e sono parte della natura generosa, vulnerabile e limitata.  È ovvio che nel cosmo generoso ce n’è abbastanza per tutti/e se nessuno pretende di vivere al di sopra delle condizioni di vita di tutti gli altri e di tutte le altre.
Ina Praetorius, L’economia è cura (2015)

 

“[Un’umanità con una maggiore integrità terrena] sollecita a dare priorità al nostro ritirarci e ridimensionarci, ad accettare di buon grado le limitazioni dei nostri numeri, delle nostre economie e dei nostri habitat per il bene di una libertà maggiore e più inclusiva e di una qualità della vita migliore”.
Eileen Crist, On the Poverty of Our Nomenclature (2013)

 

“La macchina non ha sesso. La natura, invece, è sempre sessuata. Certo, la macchina talvolta mima il sesso. Inoltre è imparentata più con l’economia di un sesso che dell’altro, specialmente per il suo statuto di utensile. La macchina, asessuata o monosessuata nella sua produzione, talvolta protegge o assiste la vita. Ma non la crea né la genera”.
Luce Irigaray, Sessi e genealogie (1989)

 

“E se le tecnologie del corpo (chirurgiche, ormonali, atletiche) generano nuove forme di genere, si tratta di forme che permettono di abitare il proprio corpo in maniera più completa oppure di un pericoloso annullamento del corpo stesso?
Judith Butler, Fare e disfare il genere (2004)

 

“La tecnologia aumenta il divario tra il concepimento di un figlio e l’atto eterosessuale, quindi il collegamento tra il concepimento naturale e l’eterosessualità si va indebolendo. È evidente che ogni bambino ha una madre e un padre biologici, ma questo è considerato sempre più irrilevante: chiunque può essere madre e padre, se la maternità e la paternità sono semplicemente ruoli costruiti socialmente. Se niente è naturale, non c’è motivo per cui la maternità e la paternità siano indispensabili al bambino. Potrebbe anche avere due padri o due madri, se non esiste una differenza essenziale e naturale tra i sessi. Un’argomentazione del genere è possibile solo se la donna in quanto madre viene considerata estranea a qualunque rapporto con l’uomo. La maternità diventa un concetto individuale, non relazionale”.
Janne Haaland Matlary, Il tempo della fioritura (1999)

 

“Se il compito dell’etica è esplorare quanto un corpo riesca a fare nel perseguire modalità attive di realizzazione attraverso l’esperienza, quando sappiamo di esserci spinti troppo in là? Come si fa a sapere quando si è raggiunta la soglia di sostenibilità? […] Il nostro corpo ci dirà se e quando abbiamo raggiunto una soglia o limite. L’allarme può prendere la forma di una malattia, di una sensazione di nausea o altre manifestazioni di tipo somatico, come la paura, l’ansia e un senso di insicurezza […] o avvisi di sconfinamento che esprimono un chiaro messaggio: ‘Non ce la faccio più’”.
Rosi Braidotti, Trasposizioni. Sull’etica nomade (2006)

 

“Decido di fare tabula rasa e di utilizzare il corpo come soglia e come criterio per distinguere i piani, ora troppo intricati e sovrapposti, della mia esistenza. In assenza di altri punti di riferimento, decido di fidarmi del mio agio o disagio psico-fisico per mettere nel ‘qui e ora’ dei limiti, i miei, rispetto a quello che intendo accettare di fare o non fare, mentre navigo a vista nel mare della precarietà”.
Chiara Martucci e Gaia Giuliani, The Love Word. Autonarrazioni a confronto (1993-2013) (2014)

 

“Se il corpo non è un ‘essere’, ma un confine variabile, una superficie la cui permeabilità è regolata politicamente, una pratica di significazione all’interno del campo della cultura fatto di gerarchia di genere ed eterosessualità obbligatoria, allora quale linguaggio ci resta per comprendere questa attuazione corporea, il genere, che costituisce la propria significazione ‘interiore’ sulla sua superficie?”.
Judith Butler, Questione di genere. Il femminismo e la sovversione dell’identità (1999)

 

“Nell’approssimarci a ogni punto della differenziazione sessuale in cui si apre un cancello, possiamo prendere indistintamente l’una direzione o l’altra ma una volta oltrepassato quel cancello, esso si chiude, fissando come maschile o femminile il precedente periodo di sviluppo. Le gonadi ad esempio potevano diventare sia testicoli sia ovaie, ma una volta trasformatesi in testicoli perdono l’opzione per diventare ovaie, e se si trasformano in ovaie non hanno più la possibilità di diventare testicoli. Nel comportamento invece a tutta prima percorriamo la strada principale, ma nel procedere tendiamo a tenerci sempre più ai sentieri segnati e socialmente prescritti per il nostro sesso. Le linee di separazione e le barriere tra maschio e femmina per ogni tipo di comportamento connesso al sesso variano a seconda della cultura e dell’esperienza, e il tipo di individuo che intanto siamo diventati determina e differenzia la disponibilità a superarle, ma mai perdiamo del tutto tali opzioni. Uno stimolo sufficientemente forte, di natura fisica, ormonale, neurale o sociale, può spingerci praticamente oltre la linea o barriera di comportamento. La nostra personale esperienza e le modificazioni che intervengono negli stereotipi sessuali della nostra cultura possono offuscare linee stabilite e abbassare delle barriere, sicché superarle diventa più facile o più difficile... La differenziazione anatomica chiude definitivamente taluni cancelli, che quindi non hanno più la possibilità di riaprirsi. Dunque, ridottissimo è il numero di comportamenti che è impossibile adottare a meno che non si sia forniti di pene e testicoli e altrettanto ridotto è il numero di comportamenti strettamente riservati alla persona fornita di vagina, utero e ovaie; ma, fatte queste eccezioni specifiche e limitatissime, non esiste comportamento adatto alla specie umana a noi precluso in ragione del sesso cui apparteniamo”.
John Money e Patricia Tucker, Essere uomo, essere donna (1975)

 

“Anche laddove paradossalmente (e patologicamente) la transessuale si concepisca come l’incarnazione stessa del femminile sans phrase, anche quando tale sia la spinta e la molla delirante della sua esperienza, resta certo che questo delirio non è senza oggetto, e che esso dovrà essere smontato e spogliato mille volte nel corso del transito, per realizzare la semplice verità che non si diventa donne se non nella misura in cui già lo si è nella posizione soggettiva e che, anche dopo insomma, l’esito del transito sarà quello di essere una donna transessuale: una donna la cui soggettività porterà in sé tutte quelle tracce del maschile (e della stessa ‘lotta’ intorno all’oggetto che lo statuisce), che fanno parte della sua esperienza di vita. Nell’esperienza transessuale il transito e l’obiettivo sono in realtà la stessa cosa. Non c’è in senso proprio, da transizionare un bel nulla: la transessuale deve, al contrario, solo raggiungere se stessa. Maneggiamento difficile e sempre improprio, che esige un lungo détour, che gli interventi chirurgici possono rendere almeno apparentemente più lieve, e di cui possono costituire un corporeo punteggiamento, ma in nessun caso di per sé risolvere”.
Fabrizia Di Stefano, Il corpo senza qualità. Arcipelago queer (2010)

 

“Me lo possono dire mille volte che io non esisto come centro, che non ho baricentro, che sono l’insieme della mie frammentazioni, ma io sento di essere il mio corpo, di avere uno sfondo di interezza nel mio sé certamente costruito dalla cultura, ma nella mia esperienza più viva, più ineliminabile, più incapace di dirsi, io sento che questa esperienza è il mio me, il mio sé. Completamente carnale, calato nell’affettività, nella sensibilità, non solo nella mente, e voglio che questo ingenuamente non sia tutto giocato nella partita a scacchi del discorso: sforziamoci di dire questa intima esperienza, questa singolarità”.
Adriana Cavarero, in Rosi Braidotti e Adriana Cavarero, Il tramonto del soggetto e l’alba della soggettività femminile (1993)

 

“[Il] corpo posizionato [è] un corpo […] che non immagina o pretende di trascendere i suoi connotati ma che li afferma come determinanti della sua visuale e del suo orientamento. Un corpo che, in ragione del suo posizionamento, non teme la prevaricazione di chi discorrendo per lui menta di lui, perché ha certezza provata di poter in ogni momento dare parola al suo essere con l’evidenza dell’azione”.
Letizia Lambertini, Corpi sessuali e corpi sessuati. Prove erotiche di comunicazione (2010)

 

“Con l’accorciamento delle distanze spaziali e temporali, condividiamo oramai un immaginario che fa fatica a recuperare un’idea positiva dell’autolimitazione e della limitazione reciproca. È urgente, invece, liberarsi culturalmente del concetto del limite come frustrante le infinite possibilità che ci sono date e come castrazione del desiderio. Questa lettura del limite è tipica, infatti, della cultura egemone dello sconfinamento senza fine e senza sosta. È possibile ‘spiazzare’ questo luogo comune, con uno spostamento del punto di vista, con un posizionamento soggettivo da cui è possibile intendere il limite a partire dalla relazione, quindi, come filtro poroso, come argine straripante, come confine mobile. […] Parlare del limite, della propria finitezza, e della finitezza di ciò che consente la condizione umana (il pianeta Terra), ci immerge in una visione relazionale, ci permette di introdurre il concetto di riconoscimento reciproco e di rispetto nel conflitto e del conflitto”.
Laura Ronchetti, Globalizzazione. Tutti i limiti del pianeta (2012)

 

“È proprio lo ‘scandalo della vulnerabilità’ che il corpo disabile espone a rappresentare […] il significato più universalizzabile della costruzione sociale dei corpi come abili o come disabili. […] La disabilità è la forma di alterità umana che incarna il soggetto Altro per eccellenza. […] Se la disabilità è concepita come mancanza di autonomia, di controllo, di facoltà di pensiero razionale, di comunicazione, di reciprocità, di distinzione, allora capiamo che l’incontro con la disabilità non è semplicemente l’incontro con una differenza, ma con tutto quello che il soggetto non può essere per potersi dire tale”.
Elisa AG Arfini, La ricercatrice vulnerabile. Percorsi narrativi di co-costruzione di genere, sessualità e dis/abilità (2014)

 

“Nel naufragio l’uomo fa esperienza del fatto che non può né conoscere né creare l’essere e perciò fa esperienza del fatto di non essere Dio. In tal modo comprende la finitudine della propria esistenza, i cui limiti cerca di fissare facendo filosofia. Nel naufragio dell’oltrepassamento di tutti i limiti l’uomo fa esperienza della realtà che gli è data come cifra di un essere che egli non è. Il compito della filosofia è liberare l’uomo ‘dal mondo illusorio del pensabile’ e permettergli di ‘rimettersi sulla strada giusta per la realtà’”.
Hannah Arendt, Che cos’è la filosofia dell’esistenza? (1946)

 

“Con il femminismo ho imparato che il prendersi cura di sé è il primo gesto per comprendere quanto sia necessario un radicale cambio di prospettiva per vivere e per vivere bene. Per poter conservare la vita, riprodurla, renderla buona, devo misurarmi e imparare ad agire con la coscienza del limite. Le derive individualistiche, che tanto hanno sedotto e seducono,  esorcizzano la paura della fragilità cui sempre allude la dipendenza. Rimuovono il limite. Operano astrazioni e disegnano il profilo di una bugiarda libertà del singolo separato dal tessuto relazionale in cui è necessariamente immerso e senza il quale la sua stessa sopravvivenza è impossibile. Dalla nascita. Un individuo sciolto da ogni responsabilità, da ogni vincolo morale, o etico, onnipotente, ignaro del valore costitutivo delle relazioni, non esiste. La necessità prioritaria della cura di sé e la consapevolezza della natura relazionale della soggettività sono le conquiste più significative del movimento delle donne”.
Luisa Cavaliere, Cura e noncuranza (2019)

 

“La natura è fatta, ma non interamente, dagli esseri umani: è una co-costruzione tra umane/i e non-umane/i. Questa visione diverge nettamente dall’osservazione postmodernista, per cui tutto il mondo è denaturalizzato e riprodotto in immagini o copie replicate. […] L’iper-produzionismo rifiuta la capacità di agire di ogni altro attore che non sia l’Uno: questa è una strategia pericolosa per tutte/i. Tuttavia il naturalismo trascendentale nega la realtà di un mondo pieno di agenti cacofonici e dissonanti per accontentarsi dell’immagine speculare dell’Identità, ecco perché può solo fingere di fare la differenza. La natura comune cui anelo, una cultura pubblica, ha molte case con molte/i abitanti in grado di dar nuova forma alla Terra”.
Donna Haraway, Le promesse dei mostri (1992)

 

“Gli esseri umani, […] spesso si dimenticano quanto loro stessi vengano resi capaci dalle cose e insieme alle cose, così come da altri esseri umani e insieme ad altri esseri umani. Nel modellare le responso-abilità, le cose e gli esseri viventi possono trovarsi sia all’interno che all’esterno di corpi umani e non-umani, in diverse scale temporali e spaziali. Tutte insieme queste parti in gioco evocano, scatenano e richiamano ciò che esiste e chi esiste. Il con-divenire e il rendere capaci producono lo spazio di nicchia n-dimensionale e i suoi abitanti. Il risultato di questo agire viene spesso chiamato natura. […] Che ci piaccia o no, siamo coinvolti nel gioco della matassa che consiste nella cura dei mondeggiamenti precari resi ancora più precari dall’uomo che brucia i fossili creando altri fossili a tutta velocità, nelle orge dell’Antropocene e del Capitalocene. C’è bisogno di una varietà di giocatori umani e non-umani in ogni singola fibra del tessuto che compone questa storia tanto necessaria che è lo Chthulucene. Qui i ruoli principali non sono riservati agli stessi giocatori che spadroneggiano nelle storie del Capitalismo e dell’Antropos, storie troppo grandi che invitano a sporadici attacchi di panico apocalittico e a denunce ancora più sporadiche e tra loro scollegate anziché a pratiche attente di pensiero, amore, rabbia e cura. […] O la prosperità verrà coltivata come una responso-abilità multispecie senza l’arroganza degli dei celesti e dei loro emissari, o la Terra biodiversa scivolerà in qualcosa di estremamente vischioso, come qualunque sistema adattativo complesso sovraccarico che non ha più forza di incassare un insulto dopo l’altro ”.
Donna Haraway, Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto (2016)