LA CASA SUL FILO

suggerimenti per un percorso di educazione antiviolenta

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I Introduzione

La rappresentazione è il processo di costruzione simbolica della realtà, cioè l’interpretazione che viene data all’ESPERIENZA per orientarsi nel mondo.

La rappresentazione si costruisce attraverso due modalità consequenziali e interconnesse: la prima è quella corporea (CORPO), risultante dall’intreccio dinamico delle informazioni sensoriali e affettive; la seconda è quella linguistica, risultante dalla trasformazione dell’ESPERIENZA in parole.

 

II La prospettiva degli studi di genere

La rappresentazione è sempre una costruzione soggettiva, anche quando, come nel caso del sistema culturale patriarcale (PATRIARCATO), se ne definisca, per ragioni egemoniche, l’oggettività, attraverso procedimenti di universalizzazione normativa.

La riflessione femminista (FEMMINISMO) ha messo in luce i meccanismi della produzione discorsiva maschilista denunciando il doppio procedimento dell’esclusione e dell’invenzione delle donne dal/nel discorso degli uomini.

Il diritto di parola, in particolare quello pubblico, che gli uomini si sono arrogati per millenni, ha agito sulla rappresentazione del mondo in due sensi. Da un lato producendo di fatto l’invisibilità delle donne, dall’altro costruendole come oggetto di un desiderio immaginifico. Concretamente questa rappresentazione ha determinato l’impossibilità per gli uomini e per le donne di scontrarsi/incontrarsi: da un lato ha costretto gli uomini a una ridefinizione continua della realtà a misura della propria idea di se stessi; dall’altro ha costretto le donne ad adeguarsi a una rappresentazione astratta e idealizzata.

Il risultato di questa operazione è stato quello di rendere il discorso degli uomini sulle donne indifferente, cioè incapace di cogliere la loro reale DIFFERENZA.

A partire da questa consapevolezza hanno preso avvio, all’interno dei percorsi femministi, diversi filoni di riflessione e di sperimentazione linguistico-letteraria: quello della denuncia del linguaggio dominante come costrutto falsificante e della scelta dell’afasia come segno della rinuncia a dominare il mondo con la parola; quello della valorizzazione della lingua materna e della madre come prima mediatrice/rappresentatrice del mondo; quello della scomposizione dell’ordine linguistico maschilista e della reinvenzione semiotica; quello del rifiuto di una lingua neutra e della promozione di una lingua rispettosa della differenza tra i generi (GENERE).

Su questo fronte si è sviluppato, soprattutto in Italia, un importante lavoro di linguistica applicata per un uso e una trasformazione della lingua rispondente alla necessità di nominare entrambi i generi. Se infatti la lingua è il principale strumento di performazione della realtà (che significa che se ciò che non è nominato non esiste, ciò che invece viene nominato esiste in modo esclusivo) è evidente che il riconoscimento delle donne passa innanzitutto attraverso una rappresentazione che non ne neutralizzi la specificità.

 

III La violenza maschile contro le donne

Ogni nostro comportamento può essere considerato un atto comunicativo e anche quando non vogliamo comunicare, otteniamo come risultato di comunicare che non vogliamo comunicare.  La parola può essere considerata come la nostra apertura sul mondo: mentre comunichiamo, non stiamo solo scambiando informazioni, non ci limitiamo a capire meglio ciò di cui parliamo, ma facciamo molto di più: entriamo in contatto con le/gli altre/i, creiamo lo spazio comune della nostra convivenza ed è la comunicazione che ci consente di comprendere meglio le diverse posizioni di ognuna/o. 

Discutendo, parlando, comunicando costruiamo la nostra realtà, ma non possiamo mai farlo da sole/i: le nostre parole devono legarsi con quelle dell’altra/o per formare qualcosa di nuovo, qualcosa capace di andare oltre il LIMITE di ciascuna/o dei parlanti. Può succedere però che anche all’interno di una RELAZIONE affettiva arrivi un momento in cui la parola, la voce, non trovino ascolto e sia dunque il silenzio. Non ci si riconosce più il diritto di parola, la voce perde il proprio tono, si abbassa, diventa “fiato sprecato”, inutile, e talvolta controproducente, dal momento che qualunque cosa si dica, essa verrà utilizzata per svalorizzare e disconfermare tutto ciò che sta oltre la parola: i sentimenti, i pensieri, i valori, le opinioni. Se non vi è ascolto, allora il dialogo si interrompe, e si può “scegliere il silenzio”, come forma di costrizione, ma anche come possibilità di non cedere a noi stesse/i.

La Legge 119 del 15 ottobre 2013 (di conversione del Decreto Legge 93 del 14 agosto 2013 “Disposizioni urgenti in materia di pubblica sicurezza e per il contrasto della violenza di genere”) ha individuato, tra le misure di prevenzione, l’adozione di iniziative volte a “sensibilizzare gli operatori dei settori dei media per la realizzazione di una comunicazione e informazione, anche commerciale, rispettosa della rappresentazione di GENERE e, in particolare, della figura femminile, anche attraverso l’adozione di codici di autoregolamentazione da parte degli operatori medesimi”. È di tutta evidenza, quindi, la necessità di coinvolgere operatori e operatrici dei diversi ambiti di socializzazione, quali, comunicatori mediatici istituzionali e non, Scuola e Università, settori lavorativi pubblici e privati, avviando un confronto che porti al massimo livello di interazione, nella consapevolezza che tali figure rivestono un ruolo fondamentale per le rappresentazioni dei mutamenti culturali in atto. In particolare, dal 2007 a oggi, il modo in cui la stampa italiana affronta il tema della VIOLENZA maschile sulle donne si è andato modificando, sia dal punto di vista quantitativo, con un chiaro e deciso incremento dell’attenzione, che qualitativo (anche se sotto questo aspetto l’andamento è meno lineare).

L’uscita del primo rapporto ISTAT sulla VIOLENZA sulle donne in Italia (2007) ha imposto una presa di coscienza collettiva sulla questione. Dopo aver titolato per tanti anni i casi di femicidio in maniera sensazionalista, anche le grandi testate hanno maggiori attenzioni a non titolare i pezzi sulla VIOLENZA sulle donne con termini come “raptus”, “delitto passionale” o “dramma della gelosia”. È un cambiamento recente e non ancora consolidato, ma che rappresenta il frutto del lavoro di pressione che donne, femministe, blogger e giornaliste hanno saputo fare attraverso la rete e dentro le redazioni.

L’Associazione nazionale D.i.Re – Donne in Rete contro la violenza (http://www.direcontrolaviolenza.it/) ha sottoscritto un Protocollo con la Commissione Pari Opportunità dell’Unione Sindacale Giornalisti Rai (USIGRai) e della Federazione Nazionale Stampa Italiana (FSNI) per svolgere seminari formativi per i/le giornalisti/e su temi legati alla narrazione della VIOLENZA maschile contro le donne senza luoghi comuni e stereotipi (STEREOTIPO), partendo dal riconoscimento degli errori più frequenti nell’uso delle parole e delle immagini e nei concetti della narrazione.