LA CASA SUL FILO

suggerimenti per un percorso di educazione antiviolenta

BACK

HOME

“Performativo è quell’aspetto del discorso che ha la capacità di produrre ciò che nomina”.
Judith Butler, Excitable Speech. A Politics of the Performative (1997)

 

“Esiste una plasticità del reale per il linguaggio: il linguaggio ha un’azione plastica sul reale”.
Monique Wittig, The Mark of Gender (1985)

 

“Se ti battezzano come disforica è chiaro che disforicamente ti costruisci, se ti definiscono patologica è chiaro che come malata ti muovi, se ti considerano criminale, depravata, degenerata non potevamo essere sante, tantomeno diventarlo, benché oggi tra molte consorelle l’aspirazione più diffusa sembra sia diventata quella di essere o sentirsi normali”.
Porpora Marcasciano, L’aurora delle transcattive (2018)

 

“Il potere che il linguaggio ha di operare sui corpi è allo stesso tempo la causa dell’oppressione sessuale e il modo per andare oltre. […] Il linguaggio assume e modifica il suo potere di agire sul reale attraverso atti locutori che, ripetuti, diventano pratiche consolidate e, infine, istituzioni. La struttura asimmetrica del linguaggio che identifica il soggetto che parla per e come l’universale con il maschile e identifica la parlante femminile come ‘particolare’ e ‘interessata’ non è affatto intrinseca a linguaggi specifici o al linguaggio in generale”.
Judith Butler, Questione di genere. Il femminismo e la sovversione dell’identità (1999)

 

“La disparità tra l’esperienza femminile e la rappresentazione dello sviluppo umano, messa in evidenza in tutta la letteratura psicologica, è stata generalmente interpretata come il segno di una carenza dello sviluppo della donna. Ma non potrebbe darsi, invece, che l’incapacità della donna a rientrare nei modelli esistenti della crescita umana sia indice di una carenza della rappresentazione, di una visione monca della condizione umana, dell’omissione di certe verità sulla vita?
Carol Gilligan, Con voce di donna. Etica e formazione della personalità (1982)

 

“I sistemi intellettuali maschili sono inadeguati poiché mancano di quella completezza che la coscienza femminile, esclusa dalla loro elaborazione, potrebbe fornire. Nel considerare il ‘secondo’ sesso come ‘altro’, questi sistemi si basano su un vizio intellettuale essenziale. Liberare veramente la donna significa allora modificare il pensiero stesso: reintegrare ciò che è stato definito l’inconscio, il soggettivo, l’emotivo, nello strutturale, razionale, intellettuale”.
Adrienne Rich, Nato di donna (1976)

 

“La cultura maschile dominante, nel separare l’uomo come conoscitore sia dalla donna sia dalla natura in quanto oggetti di conoscenza, ha creato certe polarità intellettuali che tutt’oggi hanno il potere di offuscare le nostre menti. Qualsiasi deviazione dai valori considerati positivi in questa cultura può essere liquidata come fatto negativo: là dove la ‘razionalità’ diventa sinonimo di sanità, di metodo legittimo, di ‘vero pensiero’, qualsiasi idea alternativa, intuitiva, extrasensoria o poetica viene definita ‘irrazionale’”.
Adrienne Rich, Nato di donna (1976)

 

“Il genere è l’indice linguistico dell’opposizione politica tra i sessi. Il genere è usato qui al singolare perché di fatto non ci sono due generi. Ce n’è uno solo: quello al femminile, dato che quello ‘al maschile’ non è un genere. Perché al maschile non è al maschile, ma in generale”.
Monique Wittig, The Point of View: Universal or Particular? (1983)

 

“Sono forse possibili altre forme di genere? In che modo questa eventualità andrebbe a intaccare i costumi e i bisogni della comunità politica? Com’è possibile distinguere, tra le forme possibili di genere, quelle che hanno un valore e quelle che non lo hanno? Dico subito che mi sto riferendo a un ‘nuovo futuro’ per generi che ancora non esistono. I generi che ho in mente esistono già tutti, e da tanto tempo, ma semmai non hanno ancora avuto accesso alla sfera del linguaggio, che, come è noto, governa la realtà. Per consentire loro questo accesso dovremmo forse sviluppare nuovi lessici: lessici filosofici, giuridici, politici, psichiatrici, sociologici, letterari. Lessici più sintonici con la complessità del concetto di ‘genere’. E dobbiamo denominarli ‘nuovi’ non in ossequio a qualche valore intrinseco al concetto di novità, ma perché le norme esistenti non hanno mai riconosciuto altre forme di genere come ‘reali’”.
Judith Butler, Fare e disfare il genere (2004)

 

“Se è vero, come è vero, che il potere performativo del linguaggio consiste nella ripetizione, nulla può contrastarlo più della scena in cui, quotidianamente e inevitabilmente, l’irripetibile si presenta allo sguardo altrui. L’unicità del sé che qui si mostra chiede infatti un senso che nessuna categoria generale può catturare e ricondurre all’ordine gerarchico di un sistema”.
Adriana Cavarero, Il pensiero femminista. Un approccio teoretico (1999)

 

“Il linguaggio non serve esclusivamente (o prevalentemente) a configurare stati di fatto: [nella prassi quotidiana] vengono messe in gioco tutte le funzioni linguistiche e tutti i riferimenti al mondo, sì che il ventaglio delle pretese di validità si allarga al di là delle sole pretese di verità”.
Jürgen Habermas, Fatti e norme: contributi a una teoria discorsiva del diritto e della democrazia (1992)

 

“Fra l’esperienza e la sua significazione, per quanto fedele, sussiste una distanza abissale, che non vuole dire che sia grande o grandissima e nemmeno piccola, poiché non è misurabile; vuol dire semplicemente che non è colmabile, e che sia così lo scopro proprio quando la significazione è fedele.”
Luisa Muraro, L’ordine simbolico della madre (1992)

 

"C'erano cose che sapevo e non riuscivo a dire".
Audre Lorde, Sorella Outsider (2014)

 

“Chiedersi che cosa renda il mondo vivibile non è un interrogativo velleitario, o da ‘filosofi’. […] Credo che si tratti innanzitutto di una questione etica. […] Quando proviamo a dare una risposta, in un certo senso ci troviamo a oscillare tra una prospettiva descrittiva (ciò che la vita è) e una normativa (ciò che la vita dovrebbe essere)”.
Judith Butler, Fare e disfare il genere (2004)

 

“La nostra cultura ha una consapevolezza crescente della necessità della mediazione; forse è la sua caratteristica principale. Nella nostra cultura cresce la consapevolezza che quello che ci comunichiamo è un prodotto simbolico, risultato di una serie di operazioni di codifica e decodifica alle quali partecipiamo con un ruolo meno attivo e meno grande di quello che ci sembra. Soltanto gli ingenui, si dice, possono immaginare che quello che viene significato con parole, immagini, gesti, sia l’espressione diretta del proprio e altrui voler dire, ignorando lo spessore determinante della mediazione culturale; in realtà non si tratta mai di un’esperienza, mai di un’intenzione allo stato puro, ma sempre di una loro versione culturalmente determinata”.
Luisa Muraro, L’ordine simbolico della madre (1992)

 

“Per ricreare il mondo bisogna ripensarlo, a partire da un lavoro indispensabile sul linguaggio. Bisogna sottoporre il linguaggio a una sorta di setaccio. Capire quali sono le parole che ancora ci servono, che ancora significano per noi – non nella direzione della verità-corrispondenza, ma in quella del senso che attribuiamo alle cose – e quali invece non servono più perché non sono più adeguate alle trasformazioni avvenute nella realtà; di quali nuove parole abbiamo bisogno. Rinominare il mondo vuol dire attribuirgli senso, vuol dire rendere dicibile ciò che altrimenti non risulta essere”.
Adriana Maestro, Ripensare il mondo (2019)

 

“Vediamo sempre più ciò che ci viene mostrato. Ci siamo abituati a farci mostrare qualsiasi cosa e crediamo, in questo modo, di ‘vedere’ illimitatamente. Questa tendenza alla visualizzazione presuppone una tendenza ad attribuire lo status di realtà a ciò che può essere registrato strumentalmente. Lo stadio della conoscenza fotografato conferisce il suo status a ciò che viene mostrato”.
Barbara Duden, Il corpo della donna come luogo pubblico. Sull’abuso del concetto di vita (1991)

 

“La gioia viene dalla certezza che il reale non è finto, che non dipende da noi per essere. Viene dall’essere sollevate, di colpo, dalla fatica di fingere, che faceva tutt’uno con il parlare, l’ascoltare, il camminare, l’amare, la vita insomma, e che sembrava fare tutt’uno con la vita e invece non è vero che la vita lo richieda, anzi, e allora improvvisamente spunta la gioia incomparabile e riconoscente di riposare finalmente sull’essere che non ha bisogno di parole né di niente che noi possiamo aggiungergli. […] Ora io vorrei portare l’attenzione su un fatto comunissimo ma non banale, e cioè che quello scacco radicale della parola corrisponde anche al punto di vista di molta esperienza femminile, esperienza di donne per le quali mettere in parole e mentire sembra  quasi la stessa cosa e spesso lo è, e più spesso per quelle che maggiormente aspirano ad ascoltare e dire il vero”.
Luisa Muraro, L’ordine simbolico della madre (1992)

 

“Il mondo non dipendeva da me - questa era la fiducia cui ero arrivata: il mondo non dipendeva da me, e non capisco ciò che vado dicendo, mai! Mai più comprenderò ciò che dirò. Perché come potrei parlare senza che la parola menta per me? Come potrò dire se non timidamente; la vita mi è. La vita mi è, e non capisco ciò che dico. E allora adoro”.
Clarice Lispector, La passione secondo G.H. (1964)

 

"Per tutto il tempo che ero stata in Messico non avevo scritto. E per me le parole volevano dire poesia, e questo era così importante... E su quel colle ebbi il presagio, per la prima volta, che potevo mettere insieme le due cose. Potevo infondere quel che sentivo direttamente nelle parole. Non avevo bisogno di creare il mondo di cui scrivevo. Mi resi conto che le parole potevano dire".
Audre Lorde, Sorella Outsider (2014)

 

Dal discorso degli uomini alla lingua delle donne

“Ogni teoria del ‘soggetto’ si trova sempre ad essere appropriata al ‘maschile’. Assoggettandovisi la donna rinuncia a sua insaputa alla specificità del proprio rapporto con l’immaginario. Si rimette cioè nella situazione di essere oggettivata - in quanto ‘femminile’ – ad opera del discorso. Lei stessa poi si rioggettiva quando pretende di identificarsi ‘come’ un soggetto maschile”.
Luce Irigaray, Speculum (1974)

 

“Il silenzio delle donne non è nient’altro che l’effetto di un’unica causa o intenzionalità? Che lo consideriamo dal punto di vista storico o teorico come la svalutazione delle parole delle donne imposta da una storia di dominazione culturale o politica, o come l’impossibilità per le donne di parlare un linguaggio fondato sulla loro esclusione a priori dalla polis e dalla koiné linguistica, questo silenzio femminile è proprio solo effetto del logos, dell’ordine simbolico patriarcale, del linguaggio e della cultura dell’uomo? E ancora, la contraddizione insita in quel silenzio è interpretabile esclusivamente come effetto di una marginalità culturale, un sottoprodotto dell’oppressione e della dominazione, o si può pensare che tale silenzio sia specifico dell’esistenza materiale e semiotica delle donne, a cui diamo il nome di genere?”.
Teresa De Lauretis, Sui generis. Scritti di teoria femminista (1996)

 

“E qui sta il nocciolo del problema: io stessa, come tutte, sto ora scrivendo e pensando nel linguaggio dell’altro, che è semplicemente il linguaggio, né potrei fare altrimenti. Questo linguaggio, poiché donna io mi trovo ad essere, mi nega come soggetto, si regge su categorie che pregiudicano il mio autoriconoscimento. Come posso allora dirmi attraverso ciò che strutturalmente non mi dice? Come pensare la differenza sessuale attraverso e in un pensiero che si fonda sul non pensarla?”.
Adriana Cavarero, Per una teoria della differenza sessuale (1987)

 

“Mentre un certo femminismo prende il proprio risentimento e il proprio isolamento per una contestazione e forse anche per una dissidenza, una vera innovazione femminile (in qualunque campo sociale) non è possibile prima che vengano chiarite la maternità, la creazione femminile e il rapporto tra esse. […] Se ci si attiene alla radicalità dell’esperienza detta oggi di ‘scrittura’ cioè a una messa in discussione radicale e a una costruzione più polivalente che fragile del senso e del soggetto parlante nel linguaggio, mi sembra che nulla permetta di affermare, nelle pubblicazioni delle donne passate o recenti, che esiste una scrittura femminile. Se è vero che l’inconscio ignora la negazione e il tempo per costruirsi come una trama di spostamenti e di condensazioni […] dirò che la scrittura ignora il sesso e ne sposta la differenza nella discrezione della lingua e delle significazioni (necessariamente ideologiche e storiche) per farne dei nodi del desiderio. È un modo tra altri di trattare con lo smarrimento radicale che costituisce l’essere parlante, questo eterno prematuramente separato dal continente materno come da quello delle cose, che rimedia a questa separazione con un’arma invincibile: la simbolizzazione linguistica. Un modo che consiste nel trattare questa alterazione fondamentale che caratterizza il parlante non ponendone un altro (altra persona, altro sesso: sarebbe l’umanismo psicologico) né un Altro (significante assoluto, Dio), ma una rete dove pulsioni, significati e senso si tessono e si sbrigliano in una dinamica enigmatica, dalla quale precisamente trae la sua esistenza un corpo strano, né uomo né donna, né vecchio, né bambino, che […] non smette di porre alla razionalità moderna l’imbarazzante questione di un’identità (fra l’altro sessuale) ri-fatta, ri-nascente per la forza di un gioco di segni… Il fatto che ci si affretti a risistemare la radicalità di questa esperienza in un’identità sessuale è forse, talvolta, una maniera di rendere moderno o semplicemente vendibile il suo tentativo di sottrarsi a ciò che essa ha di perentorio”.
Julia Kristeva, Eretica dell’amore (1979)

 

“Questo è, a mio avviso, un ottimo modo di porci la questione della teoria femminista e della scrittura femminile: parliamo il linguaggio degli uomini o il silenzio delle donne? La mia risposta è: entrambi. Poiché questa, che in termini di logica è una contraddizione interna, è proprio la contraddizione specifica e costitutiva del discorso femminista. […] Si può davvero parlare ‘al di fuori’ del linguaggio […] quando è proprio il linguaggio a costituire quegli stessi termini, e a definire la differenza in base a essi?”.
Teresa De Lauretis, Sui generis. Scritti di teoria femminista (1996)

 

“L’essenza che andiamo cercando è allora l’essenza storica di un soggetto reale che vuole comprendersi a partire da sé. C’è in tale sforzo di autocomprensione un aspetto attivo che è legato alla decisione della donna di produrre appunto la rappresentazione del proprio essere come soggetto, e c’è anche un aspetto, per così dire, passivo, consistente nella fiducia di ascoltarsi cercando il proprio valore non fra le rappresentazioni che ‘valgono’ in un linguaggio che le è straniero, ma nell’accogliersi quale essa è, carica di un destino non ancora felice. […] L’essenza trovata nel pensarsi è dunque l’esperienza della separatezza. E subito allora si affaccia il desiderio: questa separatezza deve essere colmata. Ed è un desiderio prepotente, ma forse, in questa prepotenza, cieco rispetto al guadagno già raggiunto: l’esperienza della separatezza non più muta ma venuta alla parola, e quindi concettualizzata, rappresentata, non è separata dal soggetto che la pensa pensandosi, che la concettualizza e la rappresenta. In questo pensiero la pensante si riconosce. Essa è in atto il suo pensiero di sé”.
Adriana Cavarero, Per una teoria della differenza sessuale (1987)

 

“La sfida che la donna oggi deve affrontare altro non è se non ‘reinventare’ il linguaggio, re-imparare a parlare: a parlare non soltanto contro, ma al di fuori della struttura speculare fallologocentrica”.
Shoshana Felman, Women and Madness: The Crticale Phallacy (1975)

 

“Ma come fare? Poiché com’era prevedibile, le parole ‘sensate’ di cui tra l’altro [la donna] dispone solo per mimetismo sono impotenti a tradurre ciò che è pulsante, gridato, sospeso e sfocato nelle traiettorie illeggibili della sofferenza-latenza isterica. Allora… Mettere ogni significato sotto sopra, dietro davanti, alto basso. Scuoterlo radicalmente, riportandovi, reintroducendovi quelle convulsioni che il suo ‘corpo’ patisce impotente com’è a dire ciò che lo agita. Insistere inoltre e deliberatamente su quei vuoti del discorso che ricordano i luoghi della sua esclusione […]. Riscriverli come scarti altrimenti e altrove dalle aspettative. […] Sconvolgere la sintassi, interrompendo il suo ordine sempre teleologico, con la rottura dei fili […] l’inversione degli accoppiamenti, le modificazioni di continuità, d’alternanza, di frequenza e d’intensità”.
Luce Irigaray, Speculum (1974)

 

“Le parole non sono mai definitivamente e totalmente confinate a un unico uso. Lo scopo della riappropriazione è proprio quello di illustrare come certi termini, così spesso compromessi, siano vulnerabili a una inaspettata possibilità di progressione; essi non appartengono a nessuno in particolare e assumono una vita e una funzione che eccedono gli usi a cui sono stati consapevolmente destinati. […] Sembra che il compito sia quello di costringere i termini della modernità ad abbracciare coloro che tradizionalmente hanno escluso, laddove l’inclusione non operi per addomesticare e neutralizzare i nuovi termini ammessi, che dovrebbero invece rimanere problematici per la concezione esistente della politica, esporre i limiti delle sue pretese di universalità e obbligare a un radicale ripensamento dei suoi parametri”.
Judith Butler, Fare e disfare il genere (2004)

 

“Che cosa significherebbe per una ragazza – nonostante le storie che le sono state lette, cantate o mormorate – scegliere di dire la verità sulla propria vita, ad alta voce a un’altra persona, proprio nel momento in cui la si invita ad entrare nella grande storia culturale della femminilità adulta, cioè nella prima adolescenza?.. A chi parlerebbe la ragazza e in quale contesto? Chi ascolterebbe la storia di cui osa essere autrice? Quali rischi corre nel raccontarla?”.
Lyn Michel Brown, Telling a Girl’s Life (1991)

 

La lingua materna

“La lingua ha con la madre un innegabile rapporto indicale, segnalato anche dall’attributo ‘materna’, che diamo alla prima lingua appresa le cui parole traducono non altre parole ma la nostra esperienza. La madre ci insegna a parlare in un modo la cui efficacia torniamo a sperimentare quando ci innamoriamo di una persona straniera e ne impariamo facilmente la lingua; l’amore infatti fa rivivere la disponibilità simbolica che caratterizza la coppia creatrice del mondo”.
Luisa Muraro, L’ordine simbolico della madre (1992)

 

“La lingua materna nella quale abbiamo imparato a parlare e a pensare è in effetti la lingua del padre. Non c’è una lingua materna poiché non c’è una lingua della donna. La nostra lingua è per noi una lingua straniera. […] Per l’uomo, avere il linguaggio è parimenti l’essere il linguaggio. Poiché la donna partecipa a questa essenza attraverso la sua sussunzione nel neutro universale uomo, anch’essa è il linguaggio. È il linguaggio dell’altro. […] Svelare la falsa neutralità di tale pensiero e la sua valenza di estraneazione della donna, è allora il primo passo necessario verso un pensiero che contempli la donna come soggetto, e precisamente come soggetto pensantesi. Se dunque è impossibile per la donna, come per qualsiasi altro parlante, uscire con un atto di volontà dal proprio linguaggio, è però per lei possibile dire attraverso di esso la sua estraneità ad esso”.
Adriana Cavarero, Per una teoria della differenza sessuale (1987)

 

“Che la normatività della lingua traduca l’autorità della madre, si vede anche in ciò, che la normatività della lingua si esercita non come una legge ma come un ordine e come un ordine vivente più che istituito. L’ordine linguistico, infatti, si mantiene non attraverso la rigida osservanza delle sue regole ma attraverso la sua incessante trasformazione che gli permette di riformarsi nonostante e perfino grazie alle innumerevoli irregolarità del nostro parlare”.
Luisa Muraro, L’ordine simbolico della madre (1992)

 

“La generazione di una struttura di simboli e di rapporti materiali tra le simili, che legittimi e autorizzi anche nel mondo della scuola, per le donne, altri modi di essere, altre pratiche di sé, un’altra arte di vivere, una presenza diversa, capace di segnalare la ricchezza e la complessità del femminile nel mondo di tutti, domanda una intenzionalità e una pratica di autovalorizzazione-valorizzazione continua del femminile. Nella scuola questo può tradursi […] da parte delle allieve l’assumere come fonte di autorità la parola delle docenti, come parola di madre simbolica che autorizza a vivere e ad apprendere secondo il sesso a cui si appartiene”.
Anna Maria Piussi, L’uno che diventa due. Linguaggio e differenza sessuale: tracce per una pedagogia della lingua (1989)

 

“Saper parlare vuole dire, fondamentalmente, saper mettere al mondo il mondo e questo noi possiamo farlo in relazione con la madre, non separatamente da lei”.
Luisa Muraro, L’ordine simbolico della madre (1992)

 

“Non parlare la propria lingua materna. Abitare sonorità, logiche separate dalla memoria notturna del corpo, dal sonno agrodolce dell’infanzia. Portare dentro di sé come una cripta segreta, o come un bambino handicappato – amato e inutile – quel linguaggio di un tempo che sbiadisce e non si decide a lasciarvi mai”.
Julia Kristeva, Stranieri a se stessi (1988)

 

“L’antica relazione con la madre ci dà sul reale un punto di vista duraturo e vero, vero non secondo la verità-corrispondenza ma secondo la verità metafisica (o logica) che non separa essere e pensiero e si alimenta dell’interesse scambievole fra l’essere e il linguaggio. Noi impariamo a parlare dalla madre e questa affermazione definisce chi è la madre/che cos’è il linguaggio”.
Luisa Muraro, L’ordine simbolico della madre (1992)