LA CASA SUL FILO

suggerimenti per un percorso di educazione antiviolenta

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“L’attività conoscitiva degli esseri umani si svolge in un ambiente complesso che non è possibile per nessuno di loro descrivere e comprendere nella sua interezza. Ciò li costringe a ricorrere a continue operazioni di riduzione, in base alla selezione di stimoli e dati soggettivamente ritenuti come i più rilevanti in ogni situazione data. La rielaborazione degli elementi selezionati in descrizioni coerenti della ‘realtà’ può essere definita con il termine ‘stereotipo’. La prima operazione di costruzione risulta in effetti un ‘prototipo’, destinato tuttavia a trasformarsi immediatamente in stereotipo non appena riapplicato allo stesso ‘oggetto’ senza più ripercorrere l’intero processo. Il fatto che il processo di costruzione di prototipi/stereotipi possa considerarsi come la modalità cognitiva fondamentale dell’essere umano fa sì che sia impossibile ritenere […] che essa potrebbe essere eliminata, vale a dire che sia possibile non avere stereotipi. Infatti oltre a un motivo di carattere strutturale-cognitivo lo stereotipo assolve ad almeno tre funzioni delle quali è impossibile fare a meno. Esso funge: a) da criterio orientativo per selezionare gli stimoli e dati percepiti nel contesto spazio-temporale entro il quale l’individuo è situato; b) da strumento per la catalogazione o categorizzazione degli stimoli e dati selezionati, tramite la loro rielaborazione in informazioni; e c) da strumento per l’instaurazione di routine di riconoscimento e di imputazione tramite la riconduzione di tutti gli stimoli percepiti come uguali, simili o affini allo stereotipo elaborato, nonché per la rimozione degli stimoli e dati diversi, dissimili o non affini”.
Flavia Monceri, Pensare multiplo. Oltre le dicotomie di sesso e di genere (2010)

 

“Il fatto che i pregiudizi svolgano un ruolo così straordinariamente grande nella vita quotidiana, e dunque nella politica, non è di per sé deplorevole; e per nessun motivo dovremmo cercare di cambiare le cose. Nessuno infatti può vivere senza pregiudizi; e non solo perché nessuno è abbastanza intelligente o assennato da riuscire a dare un giudizio originale su tutto ciò che nel corso della sua vita gli viene richiesto di giudicare, ma perché una tale mancanza di pregiudizi esigerebbe una vigilanza sovrumana”.
Hannah Arendt, Che cos’è la politica? (1950)

 

“Senza uno stereotipo linguistico […] vale a dire un generale consenso sul significato assegnato a innumeri combinazioni di suoni, non esisterebbe un linguaggio comune. Lo stereotipo maschile o lo stereotipo femminile rappresentano il generale consenso sui ruoli assegnati agli uomini e alle donne, ai bambini e alle bambine, e sono la matrice all’interno della quale prendono forma i nostri personali concetti sul significato proprio all’essere una persona che è uomo oppure donna, insomma i nostri schemi sulla mascolinità e sulla femminilità”.
John Money e Patricia Tucker, Essere uomo, essere donna (1975)

 

“Lo stereotipo, nel lavoro all’interno del grande gruppo, ha una iniziale funzione protettiva. Si tratta dell’utilizzo convenzionale di un’espressione che permette di riconoscersi. Per molti e molte costituisce il punto di partenza reale senza l’affermazione del quale il tragitto che porta alla sua elaborazione non ha motivo di cominciare. Lasciare allo stereotipo il tempo di esprimersi, senza contrastarlo reattivamente, significa essere disposti a riconoscere la persona così come sceglie o è costretta a presentarsi e ad accettare di cominciare il lavoro da quell’innegabile dato di fatto [...]. Lo sterotipo sembra essere una modalità di espresione necessaria. Il suo ruolo protettivo costituisce il mezzo attraverso il quale, in molti casi, inizia il parlare di sé. È come un tastare il terreno a partire dalle proprie sicurezze, quel metterle innanzi che necessariamente precede la disponibilità ad ‘affidarsi’ ad un ascoltatore, esterno o interno che sia”.
Letizia Lambertini, Il confronto femminile - maschile nell’educazione alla reciprocità (1999)

 

“Dobbiamo […] chiederci se non stiamo rendendo un cattivo servizio ai nostri figli gridando ‘Abbasso i contenitori’. […] I bambini di diverse età e diversi stadi sembrano amare contorni dentro cui vivere, che siano linee scure intorno a un disegno su un libro da colorare, che indicano dove deve andare il colore, o un’etichetta che possono applicare a loro stessi per riconoscere chi sono. […] Noi possiamo pensare che tali contenitori siano restrittivi o contrari alla creatività giacché visualizziamo l’intreccio di genere in tutte le sue infinte possibilità, ma guardiamo le cose dalla prospettiva di un bambino in fase di sviluppo. Che ne dite dell’immagine di un arcobaleno di contenitori […]? Questo ci permetterebbe di liberarci dell’idea rigida di due soli contenitori (maschio e femmina), ma rispetterebbe la necessità che i bambini hanno di un qualche sistema di categorizzazione di genere, se è ciò di cui hanno bisogno per organizzarsi.
Diane Ehrensaft, Il bambino gender creative (2016)

 

“La conoscenza umana è basata su un sistema di stereotipi continuamente all’opera in modo inconsapevole. Ciò vale anche nel caso dell’identità sessuale e di genere, delle quali ognuno di noi ha un’immagine stereotipica, che tende a riapplicare acriticamente nell’incontro con l’‘altro’”.
Monceri Flavia, Pensare multiplo. Oltre le dicotomie di sesso e di genere (2010)

 

“La notte scorreva ricca di cose quasi come il giorno, se non di più. Fatti, avvenimenti, luoghi, personaggi che la rendevano viva e soprattutto vissuta. Una geografia, quella notturna, sorprendentemente fluida e vivace, popolosa e popolata, dentro la quale si muovevano a loro agio le persone non conformi, gli alieni, gli irriducibili abitanti delle tenebre. Quando non si aveva, o non si poteva avere, una collocazione convenzionale, il giorno restava il luogo dell’attesa, il tempo dei ritmi lenti e sornioni, dei preparativi. Da quella postazione si osservava e si studiava il mondo, si guardava la realtà dall’oblò perché poco agibile, estranea, proprietà assoluta della maggioranza diurna che nella notte trovava lo svago, la festa, il ludico, l’oscuro fascino del peccato. Le tenebre rappresentavano il dionisiaco proibito alle masse, mentre le trans, come sacerdotesse  che incarnavano quella dimensione, la gestivano donandola, si fa per dire, a chi la ricercava. Come personaggi mitologici o fiabeschi, al sorgere del sole prima che l’incantesimo finisse, le signore si ritiravano nelle selve. Gli archetipi del giorno e della notte apparivano chiari, così come il simbolico a essi associato”.
Porpora Marcasciano, L’aurora delle transcattive (2018)

 

“La tendenza degli stereotipi culturali a resistere al cambiamento è essenziale per mantenere sia la società che i suoi singoli membri in buona salute. La sfida alla società è quella di stabilire stereotipi abbastanza forti da incoraggiare la collaborazione e nel contempo abbastanza flessibili da consentire uno sviluppo individuale”.
John Money e Patricia Tucker, Essere uomo, essere donna (1975)

 

“Una forma predefinita, dunque fissa e rigida, viene impressa nella memoria, nel pensiero, nella cultura, nelle relazioni: una forma semplificata, rozza, con la quale si pretende di descrivere una realtà complessa. Quando tale semplificazione è applicata alla realtà umana e in particolare ai rapporti fra i generi, pretende di descrivere non solo la complessità, ma anche la molteplicità del maschile e del femminile, fissandola in modelli rigidi. Quando si utilizza una mappa bipolare del tipo uomini/donne, bianchi/neri, nord/sud, il rischio dello stereotipo è sempre in agguato. È facilissimo caderci. […] Lo stereotipo è l’anticamera del pregiudizio […], il quale a sua volta spesso porta alla discriminazione. Reiterati nel tempo, gli stereotipi portano a ritenere ‘normale’ ciò che suggeriscono. Nell’immagine stereotipata agisce un codice potente che influisce sulla formazione delle identità e delle stesse capacità delle persone, e riesce a inibire potenzialità insite negli individui, con la conseguente amputazione della personalità. Può convincere ad esempio le donne a non imparare a usare le tecnologie perché ‘non sono portate per queste cose’, e può convincere i padri a non cantare la ninna ninna perché ‘tanto il bambino vuole la mamma’”.
Graziella Priulla, C’è differenza (2013)

 

Il pensiero dicotomico e l’universalizzazione degli opposti

“Il pensiero ha sempre operato per opposizioni, Parola/Scrittura, Alto/Basso. Per opposizioni duali, gerarchizzate. Superiore/Inferiore. Miti, leggende, libri. Sistemi filosofici. Dovunque intervenga un ordinamento, una legge organizza il pensabile per opposizioni (duali, irreconciliabili; o mitigabili, dialettiche). E tutte le coppie di opposizioni sono coppie. Significa qualcosa? È il fatto che il logocentrismo assoggetta il pensiero – tutti i concetti, i codici, i valori – a un sistema a due termini, riferiti alla coppia uomo/donna? Natura/Storia, Natura/Arte, Natura/Mente, Passione/Azione”.
Hélène Cixous, Sorties (1975)

 

"Lo stereotipo ci pone sempre di fronte a un bivio. Le strade sono sempre due e sono sempre opposte. Non ci sono alternative. Questa o quella? Scegliere l’una o l’altra, al fondo, risulta assolutamente identico tanta è la riduttività che ci impone".
Letizia Lambertini, Riflessioni sulla dicotomia (2019)

 

“Nella storia dell’umanità la differenziazione in uomo e donna è una delle prime più efficaci proiezioni di opposti... Per l’uomo primitivo il maschile e il femminile valgono come il prototipo degli opposti e perciò qualsiasi posizione di contrasto assume facilmente la simbologia archetipica maschile e femminile”.
Erich Neumann, La psicologia del femminile (1953)

 

“Maschile e femminile dunque come sinonimi di forza e debolezza, di coraggio e paura, di determinazione e incertezza. Termini che appaiono in molte tradizioni patriarcali, nella forma ricorrente che identifica il maschile con l’elemento vincente e il femminile con quello perdente, ma che possono talvolta tuttavia coincidere se, per tornare alla contrapposizione corpo-mente, il corpo è simbolo di potenza, e quindi maschile, e la mente di fragilità, e dunque femminile, oppure il corpo sta per istintività, cioè femminile, e la mente per progettualità, cioè maschile. Caratteristica del sistema dicotomico è comunque sempre la totale incomunicabilità dei termini di paragone. Gli antagonisti non si toccano, vivono separati, in un drammatico spazio di solitudine e pervasi dal tragico ordine della violenza che è la prevaricazione di chi può raccontarsi e raccontare rispetto a chi è negato dal raccontarsi e dal raccontare”.
Letizia Lambertini, Corpi sessuali e corpi sessuati. Prove erotiche di comunicazione (2010)

 

“L’uomo, come sessuato maschile, porta infatti in sé la finitezza, e tuttavia, con una straordinaria parabola logica, esso, attraverso una dinamica ascendente, assolutizza tale finitezza facendola assurgere ad universalità, di modo che tale universalità, attraverso una dinamica discendente, possa anche comprendere (specificarsi) sia quel maschile finito che l’ha generata sia l’altro sesso, il quale ora compare per la prima volta, assente dal processo logico e tuttavia da esso raccolto, inglobato, assimilato. In questo l’itinerario dell’uomo percorre la parabola del medesimo: esso si trova e si riconosce come particolare della sua universalizzazione. Alla donna capita invece di trovarsi solamente come particolare, come altro finito, compreso nel neutro – universale uomo. […] Così in questo universale […] l’uomo c’è con tutta la concretezza del suo essere un intero, un vivente sessuato e non un uomo + sessuazione maschile, e poiché c’è si riconosce, si dice, si pensa, si rappresenta. La mostruosità di quell’universale che è insieme neutro e maschio non lo sconvolge poiché essa viene dalla ‘generosità’ logica di una finitezza che si sobbarca il peso di valere anche per la finitezza dell’altro sesso. Dicendosi e pensandosi l’uomo parla il suo linguaggio e pensa il suo pensiero, i quali devono tuttavia per forza obliare, a causa della costitutiva dinamica di universalizzazione del finito, questo suo che li fa appartenere ad un sessuato finito: essi sono così il linguaggio e il pensiero semplicemente. […] Ne consegue per la donna che essa non può riconoscersi nel pensiero e nel linguaggio di un soggetto universale che non la contiene anzi la esclude, senza rispondere di tale esclusione. […] Così la donna è l’universale uomo con ‘in più’ il sesso femminile. Sappiamo bene come questa aggiunta non potenzi l’universale, ma anzi lo depotenzi: infatti il ‘di più’ è piuttosto e coerentemente , un ‘di meno’, ossia il neutro universale uomo meno il sesso maschile che è appunto il reale contenuto e la vera genesi di tale universalizzazione”.
Adriana Cavarero, Per una teoria della differenza sessuale (1987)

 

“La sovrapposizione della polarità attività - passività alla polarità maschile - femminile, inaugurata da Aristotele: ‘la femmina offre sempre la materia, il maschio l’agente del processo di trasformazione’, è alla base di un’ulteriore distinzione tra la forma, il tipo, la nozione, l’idea, il modello di cui il maschio è portatore e la materia di cui la femmina è depositaria, promuovendo una differenza tra il biologico tutto femminile e lo spirituale tutto maschile, che inaugura quella dialettica che si svilupperà nel corso della storia tra la materia e il modello, tra materia informe e lo spirito informatore, dove la differenza sessuale diventa il pretesto per una produzione di codici simbolici con effetti sociali”.
Umberto Galimberti, Dizionario di psicologia (1992)

 

“Che non si arrivi più al grande sogno di definire ciò che è femminile e ciò che è maschile. Una volta che il discorso vuole sfidare la soggettività […], la dicibilità della soggettività, allora sarà dicibile ‘questa donna’, ‘quella donna’. Dire un femminile che tutte le comprenda, un femminile che sia spendibile nel discorso antropologico, non è più possibile”.
Adriana Cavarero, Il tramonto del soggetto e l’alba della soggettività femminile (1993)

 

Oltre il binarismo dicotomico

“La critica della complementarietà di genere rivela un inevitabile paradosso: nel momento stesso in cui sovverte le categorie oppositive di femminilità e di mascolinità, essa riconosce che tali posizioni costituiscono inevitabilmente l’organizzazione delle esperienze”.
Jessica Benjamin, L’ombra dell’altro, Intersoggettività e genere in psicoanalisi (1994)

 

“Se una persona si oppone alle norme di un genere binario non solo perché le considera da una prospettiva critica, ma perché le incorpora criticamente, e in modo che tale opposizione stilizzata risulti leggibile, allora appare chiaro che la violenza emerge precisamente come il tentativo di disfare questa leggibilità, per mettere in discussione la possibilità, per renderla irreale e impossibile di fronte all’evidenza del contrario. Dunque non si tratta di semplice pluralità di opinioni. Contrastare con la violenza questo incarnarsi oppositivo vuol dire, in realtà, consegnare all’impensabilità quel corpo e la sfida che esso pone a una versione accettata del mondo. Il tentativo di rafforzare i confini di ciò che viene considerato reale comporta l’affossamento di ciò che nell’ordine sessualmente diversificato delle cose, è contingente, transitorio e aperto a fondamentali trasformazioni”.
Judith Butler, Fare e disfare il genere (2004)

 

“Penso che la memoria, specialmente quella collettiva, per motivi che oggi mi appaiono più chiari, operi un filtro attraverso il quale passa solo quanto è culturalmente accettato, mentre lo scarto resta onirico. È una memoria culturale che tende a scartare, dimenticare, quindi rimuovere quanto non è elaborabile; non va oltre, si ferma incorporando solo immagini di modelli accettati e condivisi. La memoria o il pensiero comune a quei tempi erano abituati a collegare automaticamente il maschio all’essere uomo e la femmina a l’essere donna. Assolutamente inconsapevoli della grande rimozione storica e culturale, operata e agita rispetto alle numerose varianti della categoria del genere. Si era rimosso e fatto sparire completamente lo spurio, lo scarto, tutto quello che risultava essere non funzionale, cancellando vite, percorsi, esperienze, talenti. Erano state rimosse dalla scena esperienze ritenute degenerate, bistrattate perché frivole, annullate in quanto ibride, bastarde, pericolose. La storia è stata testimone dell’assurdo annullamento metodico, spesso cruento, di vite o percorsi non assimilabili, di persone non censibili. Lo ha fatto tranquillamente con l’incoscienza, l’inconsapevolezza e soprattutto con l’indifferenza della massa che nulla immaginava”.
Porpora Marcasciano, L’aurora delle transcattive (2018)

 

“Non è sufficiente educare al genere proponendo un sistema di identificazione binario, fisso e preordinato. Oggi viviamo in una società complessa, in cui molti dualismi risultano inadeguati (moderno/tradizionale, noi/loro, uomo/donna, moglie/marito, madre/padre e così via). In questa contraddittorietà, i cambiamenti del corpo giovane difficilmente possono vedersi rispecchiati in una definizione rigida. Né risulta molto utile l’assegnazione categorica di comportamento o una preferenza sessuale a un’identità maschile o femminile. Educare al genere significa aumentare i livelli di comprensione e tolleranza delle diversità, e dunque ridurre la tensione verso la norma – che diventa adesione all’eterosessualità – secondo quel meccanismo che è stato definito eteronormatività. Non solo, si tratta anche di insegnare a separare l’appartenenza o le performance di genere dalle pratiche sessuali attuate o desiderate. Questo punto è importante per non ricadere nelle gabbie identitarie fornite dagli stereotipi e rafforzate dalle dinamiche di gruppo”.
Laura Fantone, Dis-connettere i generi, connettere i saperi tra pari. Le tecnologie dell’informazione come strumenti per “giocare” con il genere (2010)

 

“L’espressione comune in tedesco ‘non so più dov’è il sopra e dov’è il sotto’ traduce in termini comprensibili da tutti quello che sta accadendo a livello globale: l’ordine apparentemente naturale della divisione di genere secondo un criterio gerarchico e di complementarietà si sta inesorabilmente disintegrando con la stessa logica delle gerarchizzazioni associate, date per scontate, tra fede e conoscenza, soggetto e oggetto, res cogitans e res extensa, colonizzatori e colonizzati, centro e periferia, Dio e mondo, cultura e natura, pubblico e privato. Ma esistono anche, come era da aspettarsi, forze potenti che si oppongono alla trasformazione verso un ordine post-dualistico: corporazioni manovrano col potere del mercato per mantenere e creare nuovi stereotipi (del tipo: rosa e celeste, bianco e nero) sempre più redditizi; i media e le ‘scienze normali’ ostacolano la riflessione collettiva dirottando schematicamente l’attenzione su questioni di secondaria importanza o rilanciando sempre quelle dicotomie già assunte abitualmente. E ci sono strade di resistenza sbagliate che finiscono in vicoli ciechi perché cercano semplicemente di capovolgere le gerarchie piuttosto che scardinare l’intero ordine, si affaticano in forme di indignazione ripetitive, in scontri improduttivi e nella constatazione della propria impotenza oppure cercano una liberazione isolata per singoli individui o singoli gruppi, mentre solo la decostruzione dell’intero ordine dicotomico può aiutare”.
Ina Praetorius, L’economia è cura (2015)

 

“Forse che dobbiamo imparare a vivere e ad accogliere il disfacimento e il rifacimento dell’umano nel nome di un mondo più vasto e, finalmente, meno violento, senza conoscere in anticipo quale forma precisa assuma, e assumerà, la nostra umanità”.
Judith Butler, Fare e disfare il genere (2004)

 

“La posta in gioco non è una nuova teoria di cui la donna sarebbe il soggetto o l’oggetto, ma inceppare il macchinario teorico stesso, fermare la pretesa che ha di produrre una verità e un senso fin troppo univoci”.
Luce Irigaray, Questo sesso che non è un sesso (1977)